Un noto adagio recita che fa più rumore un albero che cade che un’intera foresta che cresce. Eppure sul fronte della vita nascente intere foreste vengono rase al suolo senza però che si senta il benché minimo rumore. Alcuni esempi. La Usl 16 di Piove di Sacco nell’agosto 2013 aveva firmato una convenzione con il Movimento per la Vita (Mpv) affinché aprisse uno sportello presso l’ospedale cittadino per fornire consulenza alle donne che volevano abortire. Dava anche la possibilità ai volontari di girare per i reparti muniti di un distintivo di riconoscimento. Il consigliere regionale Pietrangelo Pettenò (Federazione della Sinistra) propose allora un’interrogazione alla giunta Zaia per bloccare l’iniziativa: «Non risulta approvato nessun regolamento regionale in materia, come prevede la legge. Inoltre viene sollevato il dubbio sulla legittimità, e sull’opportunità, che un direttore generale possa autonomamente stabilire che in corsia possano aggirarsi dei volontari per contattare donne ricoverate. La giunta chiarisca e intervenga per garantire i diritti delle donne». Gli fece eco Daniela Ruffini, presidente del consiglio comunale: «In qualità di capogruppo di Rc farò di tutto per contrastare un’idea di pessimo gusto, volgare. Mi vengono i brividi a pensare che in un momento così critico una donna debba pure essere tormentata. Con tutti i problemi che assillano la nostra sanità, il taglio dei letti, dei servizi e dei convenzionati, spendere soldi per gli antiabortisti è un affronto ai cittadini e ai malati. E’ una decisione di una gravità assoluta».
Ed ecco che nei giorni scorsi è arrivata la decisione della Regione valida per tutti gli ospedali: bocciata la proposta di permettere ai volontari pro-life di entrare nelle strutture ospedaliere. L’IDV, Sinistra Veneta e PD hanno votato a favore del “divieto di accesso” ai volontari; Forza Italia e NCD si sono astenuti.
Tutto questo in barba all’articolo 2 della 194 che così recita: “I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato”. Tra l’altro tale decisione dei dirigenti ospedalieri di aprire le porte alle associazioni pro-life non deve sottostare al nulla osta né del Comune, né della Provincia, né della Regione.
Giriamo pagina. Il 7 giugno scorso la Consulta di Bioetica onlus lancia per il terzo anno consecutivo la campagna “Il buon medico non obietta”, volta a strozzare il diritto costituzionalmente garantito dell’obiezione di coscienza. Tanto per descrivere la fisionomia della Consulta ricordiamo che il suo presidente è Maurizio Mori; uno dei vicepresidenti è Francesca Minerva, che insieme ad Alberto Giubilini – consigliere della Consulta – firmò quel famigerato articolo sulla liceità di praticare il cosiddetto post-aborto (infanticidio); e come tesoriere figura il dottor Mario Riccio, che aiutò Piergiorgio Wekby a morire.
La campagna “Il buon medico non obietta” prevede una serie di incontri in giro per l’Italia al fine di attirare “l’attenzione sull’inaccettabilità morale del diritto all’obiezione di coscienza a più di trent’anni all’approvazione della legge 194″. In una nota la Consulta fa sapere che “oggi non c’è più bisogno di riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza in quanto chi contesta l’accettabilità morale dell’interruzione di gravidanza può sempre scegliere una professione o specializzazione che non prevede questa pratica”. Come dire che uno dei fini del medico, oltre a quello di curare e nel caso guarire, è anche quello di sopprimere i bambini nel ventre delle loro madri. E se non accetti questo aspetto della professione, caro medico, allora è meglio che cambi mestiere (lasciando così il campo aperto solo agli abortisti).
“Il progetto – continua la nota – vuole essere un manifesto per la libertà delle donne che vogliono interrompere la gravidanza e che oggi, nonostante la legge, vivono grossi disagi tra tempi d’attesa lunghi e difficoltà a trovare medici non obiettori. Dire che gli operatori sanitari devono avere il diritto di agire secondo coscienza significa non vedere che il dovere principale dell’operatore sanitario è quello di essere vicino alle scelte delle donne e promuovere il loro bene”. Da qui la richiesta di “abrogazione dell’articolo 9 della legge 194” che tutela l’obiezione di coscienza.
In merito proprio all’obiezione di coscienza moltissimi sono stati gli attacchi recenti a questo istituto (si legga “Quando il piccione da impallinare è l’obiettore” e “Gli obiettori nel mirino del ministro Bonino”). Nel gennaio del 2014 la CGIL ha presentato un reclamo al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa perché gli obiettori in Italia sarebbero troppi. Il mese dopo il Consiglio per i diritti dell’uomo delle Nazioni unite pubblica un Report sulla “Tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti” dove l’obiezione di coscienza figura come pratica di tortura. Poi nel maggio successivo l’ex Ministro degli esteri Emma Bonino in un convegno a Milano afferma che “l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza […] sta mettendo a rischio il diritto delle donne di interrompere la gravidanza nei tempi e nelle modalità previste dalla legge 194”.
A giugno – come raccontavamo in un precedente articolo – “una trentina di senatori di Pd, Pdl, Gal, Scelta civica, M5s, Sel hanno presentato una mozione in Senato affinchè si preveda che il 50% dei medici non sia obiettore e che l’aborto sia considerato come una reale opzione per le donne”. Da qui un’indagine del governo per passare al setaccio gli obiettori e verificare che non mettano il bastone tra le ruote all’aborto di Stato. Risultato: la macchina abortiva funziona benissimo, soprattutto – per paradosso – laddove ci sono più obiettori (come già faceva notare un documento del Comitato Nazionale di Bioetica).
Giriamo ancora un’altra pagina di questo libro nero sul diritto alla vita. A fine marzo di quest’anno si tagliano i fondi ai progetti Nasko e Cresco voluti dalla Regione Lombardia per aiutare le donne in difficoltà economiche a portare avanti la gravidanza e a crescere il loro bambino in tutta serenità. Il taglio è avvenuto rendendo più difficile per le mamme entrare nelle categorie di persone che possono beneficiare dei sussidi: si è passati da un anno di residenza in Lombardia per poter accedere ai fondi a cinque anni; da un reddito di 12mila euro a uno di 7.700. Il taglio ha penalizzato soprattutto le mamme extracomunitarie.
C’è un filo rosso sangue che lega tutte queste vicende. Il fine non è tanto quello di rendere sempre più agevole abortire a chi ha l’intenzione di farlo – questo avviene già in tutta comodità – bensì di spingere a sopprimere il proprio bambino la donna che non è proprio convinta di abortire. Ecco perché allontanare i volontari pro-life dagli ospedali, ecco perché mettere in un angolo il medico obiettore – perché la sua coscienza obiettrice può far risvegliare altre coscienze non ancora totalmente obnubilate dal male – ecco perché non aiutare quelle donne che con qualche euro in più potrebbero cambiare proposito. L’obiettivo quindi è di andare a caccia delle madri dubbiose o in difficoltà eliminando tutti coloro che si frappongo alla meta. Aborto per tutte, dunque, anche per quelle con altre idee per la testa.
di Tommaso Scandroglio
Tratto da: http://www.lanuovabq.it/
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