Quale futuro per la Palestina?

Aref Hajjaj, politologo, esperto della situazione mediorientale, nato a Beirut e cresciuto nel Kuweit, vive in Germania dove presiede il Forum Palestina. Su invito dell’Amicizia ebraico-cristiana di Locarno ha tenuto, ad Ascona, una conferenza sul conflitto israelo-palestinese. Hajjaj ha pure commentato criticamente le recenti affermazioni del ministro degli esteri svizzero, Ignazio Cassis, sull’eventualità di ridurre gli aiuti ai palestinesi.

Aref Hajjaj, lei sostiene che la soluzione che prevede la costituzione di due stati distinti – quello palestinese, accanto a quello israeliano – è ormai superata e irrealizzabile. Perché?
Non vedo nessuna possibilità di creare uno stato palestinese accanto a quello israeliano perché la costruzione di sempre nuove colonie in territorio palestinese di fatto impedisce la realizzazione di un simile progetto. Nella West Bank sono sorte ovunque delle colonie israeliane, tanto che quel territorio è ormai diviso in due tronconi: una parte settentrionale e una meridionale. Inoltre le vie di comunicazione tra la West Bank e Gerusalemme est – che dovrebbe essere la capitale dello stato palestinese – sono state interrotte. Questa situazione mi spinge a ritenere che la sola soluzione praticabile sia quella di creare un unico stato, nel quale israeliani e palestinesi vivano insieme. Ovviamente in condizioni diverse da quelle odierne.

Dunque lei vede nelle colonie israeliane il nodo che impedisce la soluzione del conflitto israelo-palestinese…
Finché le colonie non saranno smantellate, non vedo nessuna possibilità di arrivare alla pace. Non parlo di cancellare le colonie, ma di ridimensionarle fortemente. Senza questa premessa, è impossibile creare uno stato palestinese, ed è anche impossibile creare un unico stato per israeliani e palestinesi in cui entrambi abbiano i medesimi diritti e doveri.

Aref Hajjaj

Quale futuro per la Palestina?

Quello che lei propone – vale a dire, uno stato unico per israeliani e palestinesi – è un modello davvero praticabile? Ci sono già degli esempi di coesistenza tra israeliani e palestinesi, o si tratta di una visione in qualche modo utopica?
In Israele ci sono alcune città – come Jaffa, Haifa o Akku, ora anche Nazareth – in cui le due componenti vivono, una accanto all’altra, in modo sostanzialmente pacifico. La comunicazione e gli scambi sono buoni. Certo, ci sono altre regioni, in Israele, in cui israeliani e palestinesi vivono completamente separati gli uni dagli altri. Ma se il modello di Jaffa, Haifa e delle altre città fosse adottato su scala nazionale, nell’ambito di uno stato unico, fondato su nuove basi, sono convinto che potrebbe funzionare. Oggi questa può sembrare una visione utopica, ma credo che le visioni possano essere realizzate, a condizione ovviamente che vengano create condizioni adatte.

Lei sostiene che per spingere la leadership israeliana ad adottare una linea politica diversa, occorre una pressione internazionale. Ad Ascona ha parlato anche di azioni di boicottaggio. Un tema delicato, un termine considerato spesso tabù. Ci spieghi che cosa intendeva…
Ho parlato di boicottaggio nei confronti dei prodotti privi di un chiaro certificato di provenienza. Se i prodotti provengono dallo stato di Israele, allora sono contrario al boicottaggio. Israele è uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Ma se i prodotti provengono dalle colonie israeliane, allora ritengo che il boicottaggio sia un mezzo legittimo di protesta. E aggiungo che se la merce è priva di un certificato che ne indichi chiaramente la provenienza – e dunque sussista la possibilità che provenga dalle colonie -, allora è legittimo boicottare tutto ciò che proviene da Israele.

Le due facce di Israele (Segni dei Tempi RSI La1)

Lei lamenta il fatto che il movimento per la pace, in Israele, si sia molto indebolito negli ultimi vent’anni, dopo l’uccisione di Rabin. E ripone scarsa fiducia nella volontà dell’attuale governo israeliano di cercare soluzioni pacifiche. Ma come valuta la situazione sul versante palestinese?
Sono molto scettico nei confronti della leadership palestinese, sia quella di Ramallah, sia quella di Gaza. Entrambe sono corrotte, incapaci, avide solo di potere, caratterizzate da nepotismo e difesa di privilegi. Ripeto da tempo che bisogna tornare alle urne. In Palestina è dal 2010 che non si tengono più elezioni presidenziali o del parlamento. Nuove elezioni democratiche, sotto il controllo delle Nazioni Unite e della Comunità europea, potrebbero far emergere nuovi attori politici. C’è ad esempio il movimento denominato “Mudaraba” – l’iniziativa nazionale palestinese -, il cui leader è Mustafa Barghouti. Si tratta di una persona che sarebbe certamente in grado di condurre un dialogo di pace con la controparte israeliana.

Ignazio Cassis, ministro svizzero degli esteri

Quale futuro per la Palestina?

Lei parla della corruzione che regna a Ramallah come a Gaza. Dunque, ha ragione il ministro degli esteri svizzero, Ignazio Cassis, nel dire che bisogna ridurre gli aiuti ai palestinesi perché sono corrotti…
…ma Cassis non ha motivato la sua proposta riferendosi alla corruzione. Se lo avesse fatto, avrei sottoscritto le sue parole, ma il ministro degli esteri ha usato un’altra motivazione, e cioè quella dell’abitudine a ricevere aiuti. In questo senso, non posso essere d’accordo con lui: la situazione umanitaria, a Gaza, è catastrofica. Se le persone laggiù non ricevessero più aiuti, sarebbe un disastro. Per molti, sarebbe la morte. Ritengo dunque che quella dichiarazione del ministro Cassis, espressa oltretutto in un momento di grave difficoltà per la popolazione di Gaza, sia stata piuttosto infelice. Perciò mi sono rallegrato quando il ministro ha corretto le sue dichiarazioni. Ripeto, gli aiuti finanziari, umanitari alla popolazione della Striscia di Gaza, sono al momento assolutamente necessari.

Quale futuro per la Palestina?

Un’ultima domanda, per concludere. Che ruolo ha la religione nel conflitto israelo-palestinese? Alla luce anche del fatto che proprio Gerrusalemme riveste, per cristiani, musulmani ed ebrei, una grande importanza, anche dal punto di vista religioso…
Le religioni rivestono purtroppo un ruolo sempre più importante. Lo vediamo nei movimenti più conservatori ed estremisti nella Striscia di Gaza, ad esempio – penso ad Hamas, ma anche a Jihad Islamya e altri. Nel contesto più ampio del conflitto israelo-palestinese, la situazione mi sembra essere un po’ diversa. La religione non riveste un ruolo così importante: palestinesi cristiani e musulmani sono su posizioni sostanzialmente vicine, e non ci sono tensioni tra sciiti e sunniti perché i palestinesi di religione islamica sono tutti sunniti. Per quanto concerne Gerusalemme, è importante sottolineare che per i palestinesi la città ha un significato più nazionale che religioso. Nella coscienza palestinese, Gerusalemme è “la nostra capitale”. Il fattore religioso non è dunque il nodo principale del confronto tra palestinesi ed ebrei – per Hamas lo è, ma non per la maggioranza della popolazione palestinese. Per i palestinesi si tratta di una questione nazionale. (intervista di Paolo Tognina)

Da: voceevangelica.ch


Sostieni la redazione di Notizie Cristiane con una donazione, clicca qui