QUALCHE CONSIDERAZIONE SULLA GENEALOGIA DI “DONNA VITA LIBERTA’”.

Lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi” non è roba da borghesia radical-chic: è un messaggio rivoluzionario scandito dalle combattenti curde e scritto sui muri delle celle.

Pretendere con le modeste forze a mia disposizione – e la mancanza di adeguati titoli accademici – di recensire, commentare, divulgare (e fatalmente riassumere) quella che possiamo definire una “esplorazione” delle origini e del significato dello slogan “Jin, Jiyan, Azadi” (“Donna, Vita, Libertà”) della militante curda Somayeh Rostampour * è senz’altro, almeno da parte mia, eccessivo.

D’altra parte gli “addetti ai lavori” sembrano il più delle volte intenti o a strumentalizzarlo oppure  – forse peggio – a utilizzarlo senza criterio o adeguata conoscenza. Vedi il caso di qualche parlamentare europea nostrana e di corporazioni parastatali senz’altro rispettabili, ma che difficilmente possono identificarsi con la pluridecennale lotta di liberazione del popolo curdo.

Quasi una mancanza di rispetto per chi lo ha ideato, rappresentato direi quasi incarnato: le donne curde in lotta contro l’oppressione patriarcale, statale e capitalista in tutte le sue variegate forme.
Quindi mi ci proverò.

Il movimento di rivolta femminista (non appaia eccessivo definirlo pre-insurrezionale) che per oltre sei mesi ha infiammato il Rojhilat e l’intero l’Iran (e che al momento sembra entrato in una fase di riflessione) ha una precisa data d’inizio: il 16 settembre 2022. In quella data veniva ammazzata dalla polizia morale della Repubblica islamica Jina (Masha all’anagrafe dato che il nome curdo era stato proibito) Amini.
Una ribellione contro non solo l’obbligo del hijab, ma anche contro quelli che Somayeh Rostampour qualifica come “44 anni di apartheid sessuale, patriarcato, dittatura militare, neoliberismo, nazionalismo e teocrazia islamista”. E scusate se è poco.
Un movimento propedeutico alla caduta del regime e a un cambio radicale dei rapporti sociali.

Fermo restando che – come per ogni movimento rivoluzionario – non mancano rischi concreti di strumentalizzazione (sia da parte di Stati come Israele e USA, sia da parte, per esempio, dei nostalgici monarchici).

Stando ai dati delle Ong, nei primi tre mesi del movimento sono stati arrestati oltre 18mila manifestanti, migliaia risultano feriti e circa cinquecento uccisi negli scontri o sotto tortura (tra cui una settantina di minori). Dopo quelle già eseguite, si teme per le altre condanne a morte già emesse o previste (circa un centinaio). In genere senza prove sostanziali, con confessioni estorte con la tortura. Per non parlare delle condizioni indegne di prigionia e dei maltrattamenti subiti dalle persone arrestate, in particolare dalle donne.

Quando come sottolinea Somayeh Rostampour, viene gridato che questa è “una rivoluzione delle donne, non chiamatela più una manifestazione” significa che questa volta (rispetto ai movimenti di protesta del passato) le cose sono differenti.

Quanto allo slogan adottato, ”Jin, Jiyan, Azadi”, veniva scandito da migliaia di abitanti di Saqqez (Rojhilat, Kurdistan sotto occupazione iraniana) al momento della sepoltura  di Jina che le autorità avrebbero voluto si svolgesse in segreto.

Venne poi utilizzato in un’altra città curda, a Sanadaj e successivamente dagli studenti di Teheran. Da allora in poi si è udito distintamente in ogni città e villaggio dell’intero Paese.

Ma, si chiede la studiosa e militante curda “come era arrivato questo slogan a Saqqez?”. E anche “qual’è il suo significato politico e sociale, la sua genealogia?”. “Jin, Jiyan, Azadi” non è diventato “la parola d’ordine del sollevamento in Iran per caso, non è caduto dal cielo”. Deriva da una lunga storia di lotte sociali. Rappresenta “l’eredità del movimento delle donne curde in quella parte del Kurdistan posto entro i confini ella Turchia, il Bakur”.

Riporta quindi quanto aveva scritto nello scorso settembre Atefeh Nabavii (a lungo in cella con Shirin Alamholi, esponente del PJAK, giustiziata a 28 anni nel 2009 e il cui corpo non è mai stato restituito alla famiglia):

“Ho inteso per la prima volta lo slogan Jin, Jiyan, Azadi da Shirin Alamholi nella prigione di Evin, era scritto sul muro della cella, a fianco del suo letto”.
Sia il PJAK (Partito per una vita libera nel Kurdistan ) nel Rojhilat che il movimento delle donne in Bakur attingono la loro visione del mondo dal pensiero di Abdullah Ocalan, il fondatore del PKK nel 1978. Partito che inizialmente utilizzava mezzi pacifici, ma che dopo il colpo di Stato del 1980 aveva adottato la lotta armata. Come è noto dal 1999 quello che possiamo definire il “Mandela curdo” è imprigionato (dopo un sequestro illegale in Kenia) nel carcere di Imrali.

Inizialmente, in quella che viene considera ta “fase marxista-nazionalista”, Ocalan era stato influenzato anche dal maoismo, oltre che dal pensiero di Franz Fanon (“I dannati della Terra”) e di Ernesto Guevara. Ma fin dagli esordi aveva fortemente incoraggiato il protagonismo delle donne nella lotta di liberazione. In quanto “la liberazione del Kurdistan non sarà possibile senza la liberazione delle donne”.

Distinguendosi in questo dalla maggior parte delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, non solo da quelle mediorientali. Ossia “il PKK metteva in luce la questione femminile nella cornice del moderno nazionalismo curdo che principalmente si basava sulla difesa della patria curda, del proprio territorio, della cultura e della lingua curde”.
In seguito, sostanzialmente dal 1995, nel PKK avviene quella che Somayeh Rostampour definisce una “rivoluzione culturale”. Allontanandosi sia dall’ortodossia marxista più rigorosa, sia dalla rivendicazione di una patria indipendente (il “Grande Kurdistan”) evolvendo in direzione di una visione politica incentrata sul concetto di “democrazia” (in parte a scapito di quello di “classe”). Nella sua elaborazione Ocalan va a individuare i soggetti del processo rivoluzionario non solo nei lavoratori, ma soprattutto nelle donne e nelle pratiche ecologiste.
Elaborando una sintesi di comunalismo e autonomia sociale denominata “Confederalismo democratico” e fondato su tre pilastri: le comuni, le donne e l’ecologia.

La questione delle donne diventa ancora più centrale e la componente femminista del PKK acquista ulteriore importanza, sia nell’elaborazione politica che nella pratica sociale. Oltre che nella resistenza, ovviamente.
Già in precedenza comunque, Ocalan aveva analizzato e recuperato le antiche tradizioni matriarcali (matrilineari) mesopotamiche (vedi l’antagonismo tra il dio maschile Enkidu e la dea guerriera Ishtar) in contrapposizione sia al patriarcato che all’imperialismo e al colonialismo.
Nella convinzione che le donne, le prime a creare la vita e a coltivare le conoscenze indispensabili per essa, ne erano state espropriate dagli uomini.

Come Ocalan stesso ha dichiarato, il suo obiettivo politico era quello di “restituire alle donne la fiducia in se stesse che avevano perduto dimostrando che il patriarcato non era un principio eterno e naturale della storia, ma bensì il risultato di pratiche storiche”. Per concludere che “il patriarcato poteva essere superato”.
Almeno dal 1990 Ocalan aveva utilizzato insieme, in diverse occasioni, i concetti di “Donna” e di “Vita”.

Anche perché la radice delle parole donna (Jin) e vita (Jiyan) in lingua curda è la medesima.
Non a caso nel 1999 il PKK pubblicava un documento intitolato “Jin Jiyan” e dal 2000 lo slogan “Jin, Jiyan” è stato ampiamente e sistematicamente utilizzato dalle donne curde in Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca).

Da questo punto di vista l’espressione “Jin, Jiyan” è di molto antecedente all’attuale “Jin, Jiyan, Azadi”. E anche la parola “Azadi” (Libertà) rientrava tra i concetti basilari del PKK. Libertà dai rapporti sociali di dominio – di potere – sia dal capitalismo che dallo Stato e dal patriarcato.

Stando alle testimonianze raccolte, nel 2002 durante la cerimonia funebre organizzata da militanti del PKK per una vittima di femminicidio, le donne presenti avevano scandito lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi “ nella sua interezza. Da allora si era andato diffondendo diventando quasi una tradizione, soprattutto per le donne assassinate.

Sempre Ocalan aveva utilizzato le tre parole insieme – forse per la prima volta – nel quarto dei suoi liberi scritti in prigione “La crisi della civilizzazione in Medio Oriente e la soluzione della civilizzazione democratica” nel 2006.

Non particolarmente  utilizzato fino al 2008, esplose, letteralmente, in Rojava e Bakur soprattutto dal 2013. Difatti, in una lettera scritta nel 2013 (ci ricorda Somayeh Rostampour) Öcalan evidenziava la potenza tutta politica dello slogan Jin, Jyian, Azadi nella ricerca di una “vita degna”.

Arrivando a definirlo una “formula magica” in grado di fornire un modello per le donne dell’intero Medio Oriente. Naturalmente “né la storia del PKK, né quella delle donne nel movimento, possono venir ridotte a quella del loro dirigente”.
Il PKK è “un movimento sociale e politico che si è sviluppato non solamente nell’ambito politico, ma nella vita quotidiana di milioni di persone ormai per varie generazioni”.

E sono le donne del PKK, sia le combattenti che quelle che agiscono nella società civile, che hanno fatto di “Jin, Jiyan, Azadi “ l’idea centrale del movimento. “Femminisando” la politica in Kurdistan e condizionando anche quella della Turchia.

Andando di casa in casa, parlando con donne di ogni condizione sociale, trasformando la questione di genere da una istanza delle élites a un problema che riguarda tutti gli oppressi.

Per concludere con Somayeh Rostampour che “quanto è accaduto il 17 settembre a Saqqez durante il funerali di Jina Amini non era un avvenimento senza precedenti”. Ma piuttosto “la prosecuzione di una tradizione politica rivoluzionaria di lunga data originariamente sortita dal PKK”. Tradizione in cui hanno avuto un ruolo preponderante anche le “madri per la giustizia”, quelle che avevano perduto i loro figli nella lotta di liberazione sia in Bakur che nel Rojhilat (v. Le “Madri del sabato” e le Dadkhaah).

Gianni Sartori


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