“Ora, dopo molto tempo, ritornò il signore di quei servi e fece i conti con loro”. Matteo 25:19 –
di Roberto Bracco – La parabola dei talenti ha un valore edificativo non soltanto per l’individuo, ma anche per la comunità: tutti ci troviamo su un piano di responsabilità spirituale.
Iddio “prova” i suoi servitori e da un punto di vista strettamente evangelico, tutti siamo suoi servitori; quindi Iddio “prova” ogni credente, Iddio “prova” ogni chiesa locale, Iddio “prova” ogni movimento suscitato dallo Spirito Santo.
La “prova” determina fatalmente una classificazione ed una definizione e dalla prova infatti escono coloro che sono “approvati” e coloro che sono “riprovati”. Se noi consideriamo questo fenomeno, non come un assoluto elemento escatologico, ma come una circostanza storica, che si rinnova per ognuno e si ripete nei secoli, possiamo applicare i dettagli della parabola alle autentiche esperienze dei credenti, delle chiese e dei movimenti.
Ci sono gli “approvati”, cioè coloro che rimangono nella “casa” del loro Signore, che vengono mantenuti al Suo servizio, che ricevono ricchezze e qualifiche più elevate e che, soprattutto, conservano una relazione col proprio Signore, premessa assoluta di ogni benedizione.
Ci sono i “riprovati” che perdono, invece, assieme a quello che avevano ricevuto, ogni relazione con la “casa”, con la “famiglia” col “servizio” con il loro “Signore”.
Possiamo anche ammettere che da un punto di vista umano, questo fenomeno rimanga invisibile, nella causa e negli effetti, e che quindi il religioso continui ad apparire un religioso o che la chiesa mantenga il suo aspetto formale o la sua fisionomia esteriore di chiesa, anche quando sono riprovati; ma dobbiamo però ricordarci che questa possibilità non modifica la drammatica realtà di un rapporto alterato fra l’uomo e Dio o fra un popolo ed il proprio Signore.
Quello che ha realmente valore non è quel che sembriamo essere, ma quello che veramente siamo. Quando le nostre relazioni con il cielo non sono più autentiche, ci troviamo forse in uno stato di apparente religiosità, ma di tragica infedeltà; possiamo sembrare cristiani e non esserlo, possiamo qualificarci servitori, ma avere in noi stessi la condanna di Dio.
Il servitore deve sempre tenere presente, se non vuol cadere sotto il giudizio del Signore, che i suoi rapporti con Colui che lo ha chiamato alla vocazione del cielo, sono fondati sopra tre elementi che devono rappresentare sempre la base di un servizio fedele, costante, efficace e questi sono fiducia, libertà, tempo. I tre elementi quindi rappresentano anche quello che può essere definito il banco di prova per ogni cristiano o per ogni chiesa.
Fiducia. Iddio affida ad ogni credente la ricchezza delle Sue benedizioni: autorità, potenza, sapienza non sono beni terreni od umani, ma tesori dei forzieri divini.
L’abbondante ricchezza della grazia celeste è offerta in deposito a tutti, benché non tutti la partecipano in uguale misura. Dobbiamo però riconoscere che anche la più piccola delle porzioni costituisce un tesoro che supera per valore le gemme più brillanti e le perle più rare.
Il depositario, con la ricchezza, accetta anche la responsabilità della conservazione e dell’uso del prezioso deposito. Non soltanto si costituisce custode del bene che gli è stato dato, ma s’impegna ad usarlo in operazioni o in investimenti cauti ed intelligenti che possano renderlo fruttifero.
Il capitale impone l’esercizio di una vigilanza solerte, ma anche di un’attività costante e, perché no, di una vera e sentita umiltà. Il servitore deve rimanere anche interiormente nella posizione di amministratore di beni ricevuti in deposito; non deve insuperbire, quasi che quelle ricchezze l’autorizzassero a sentirsi ricco di beni propri.
Il pericolo è reale e possiamo purtroppo ricordare che non pochi sono caduti nell’infedeltà proprio a causa della superbia. Le benedizioni ricevute sono diventate, per questi, un trono sul quale hanno posto il loro io; invece di ripetere con Paolo: “… ho faticato…, non già io, ma la grazia di Dio che è stata con me …” essi hanno reclamizzato i propri successi, la propria autorità, la propria potenza.
Iddio non permette uno “stecco nella carne” per ognuno dei suoi servitori, ma chiede ugualmente che tutti coloro che sono stati onorati della sua fiducia riconoscano la loro posizione di poveri amministratori e diano a Lui soltanto il credito dei beni ricevuti.
Libertà! È stato detto, con un esempio moderno, che il servo di Dio non è stato posto su un binario, ma ha ricevuto un volante; egli possiede, nell’esercizio del ministero o nell’attuazione della vita cristiana, un potere discrezionale che mette in evidenza e valorizza la sua personalità.
Il credente quindi non può mai essere assomigliato ad un automa, ad una macchina; non si muove a mezzo di comandi elettrici che ignorano la sua volontà e annientano la sua libertà. Egli ha davanti a sé una strada, vede i limiti di questa e può seguire con lo sguardo interiore, il variato snodarsi dell’arteria di Dio; deve rimanere sempre entro i confini, deve rispettare curve e rettilinei; ma ha una libertà di guida che lo impegna a mostrare la sua attenzione e la sua abilità.
Nell’uso di questa libertà il servitore non soltanto deve saper vedere e riconoscere il piano, possiamo dire il tracciato di Dio delineato con precisione assoluta dalle Scritture, ma deve anche saper rispettare quella che è stata felicemente qualificata la gerarchia dello Spirito. Nella meravigliosa strada della fede si concretizza un itinerario che ci rende servi di Dio e collaboratori di Dio nel senso più alto di questi termini e perciò la “corsa” si deve svolgere sempre entro i limiti della rivelazione scritta e dell’autorità o dell’ispirazione celeste.
È facile uscire di strada od abbordare una curva senza aver dato l’indispensabile termine di angolazione al volante; non ci sono binari, ma ruote libere che devono essere controllate dalla nostra libertà e dalla nostra abilità. L’uso della libertà è un privilegio, ma è anche una responsabilità e noi siamo profondamente provati da questo fondamentale elemento.
Paolo, che vuole andare in Asia piuttosto che in Europa, o Filippo che in Samaria aspetta soltanto che la visuale di una nuova curva sia chiara agli occhi suoi, ci mostrano, nella varietà dell’esempio, come si potrebbe uscire di strada o come si potrebbe assicurare una marcia tranquilla al proprio servizio.
Purtroppo ormai non è più possibile contare le chiese, i movimenti, i cristiani che si sono serviti della libertà per una “occasione della carne” e che “avendo cominciato per lo Spirito, hanno cercato di perfezionarsi per la carne”.
Libertà di metodi, libertà di programmi, libertà di dottrina, libertà di morale; la libertà anche nell’ambiente religioso si è trasformata in licenza e moltitudine di servitori, considerata la loro autonomia, hanno alzata una bandiera di perniciosa indipendenza che li ha letteralmente scaraventati “fuori strada”. Sviarsi non vuol dire forse: “andare fuori strada” e non è forse vero che ogni sviamento, antico e moderno, rappresenta il risultato diretto e fatale del cattivo uso della libertà?
Tempo: Generalmente Iddio offre un “tempo” ad ogni credente, ad ogni chiesa: “Sono tre anni che vengo a cercare frutto …” “ho dato tempo di ravvedersi…” “quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli…”.
Queste sono soltanto alcune delle molte dichiarazioni della Scrittura che affermano che l’esigenza di Dio è rigorosamente ragionevole. Egli vuole fedeltà, servizio; Egli vuole gli interessi del suo capitale, ma concede anche il tempo che è necessario per la maturazione delle cose.
Il “tempo” è un elemento prezioso se è usato come un moltiplicarsi di opportunità; le occasioni di servizio che si presentano in un anno sono più numerose di quelle che si presentano in un giorno e perciò il tempo diventa ricchezza se noi cerchiamo le occasioni per utilizzarle.
Il tempo è anche prezioso quando è usato come occasione di perfeziona-mento; l’allenamento o la pratica sono tanto più efficaci, quanto più a lungo esercitate e se noi ci serviamo del tempo, per temperare la nostra vita, o per eliminare le nostre incapacità possiamo constatare che esso si trasforma in una vera benedizione per la nostra vita.
Ma anche questo elemento può diventare termine di riprovazione perché, mentre ci viene incontro con le sue offerte generose, reclama il nostro impegno profondo, cioè la nostra costanza nei propositi, nel servizio, nella comunione col cielo. È stato detto, con un senso affatto puerile, che è più facile perseverare un’ora in preghiera che non una notte; si può aggiungere che anche per una chiesa o per un movimento è più facile vivere fedelmente dieci anni che non un secolo.
Forse per questo un numero rilevante di movimenti di risveglio hanno avuto una vita calda e potente soltanto per dieci, venti, trenta anni. È sopraggiunta la stanchezza, la sonnolenza, l’involuzione: il tempo ha espresso un giudizio di riprovazione.
Provati nel tempo? Soltanto “chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato”, ma questa solenne sentenza deve essere interpretata ed accettata alla luce della nostra parabola.
Iddio viene a noi di tempo in tempo e sempre vuole trovarci non soltanto in possesso delle ricchezze che ci ha affidate, ma anche con quel frutto e con quegli interessi che possano dimostrare la nostra fedeltà, la nostra sottomissione, il nostro zelo.
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