La reputazione dei protestanti è di essere sobri e austeri. Ma sanno anche essere felici? Tre teologi a confronto sulla felicità.
(Elise Perrier) Felici, i protestanti? Seduti sul banco di una chiesa alle dieci di una domenica mattina in mezzo a qualche testa brizzolata potremmo pensare il contrario. Se i cristiani sono davvero “salvati”, perché hanno l’aria così poco allegra?
Cattiva reputazione
Professore di filosofia e di etica presso la facoltà di teologia dell’Università di Ginevra, Ghislain Waterlot abbozza una risposta: “La dottrina della predestinazione [dottrina secondo la quale Dio avrebbe deciso in anticipo di salvare alcuni dalla condanna che grava su tutta l’umanità, ndr.] avrebbe potuto portare il protestante a godersi la vita su questa terra: se tutto è già deciso, allora godiamocela! E invece accade proprio il contrario. Poiché non ha la certezza della propria salvezza, dice a se stesso: “Sebbene non sia salvato dalle opere, le opere restano malgrado tutto il mio unico segno di salvezza, quindi le accumulerò con ascetismo”. Per il cattolico è diverso: “Se commette una colpa può sempre andare a confessarsi dal prete e le cose tornano alla normalità. Perciò è più incline a godersi la vita”.
“Oh Happy Day”, inno gospel
Per Michel Grandjean, professore di storia del cristianesimo presso la facoltà di teologia di Ginevra, il contesto storico nel quale si è manifestata la Riforma ha condizionato la riflessione del protestantesimo sull’argomento: “Se oggi dovessimo trovare una situazione corrispondente a quella che si viveva all’epoca di Calvino – pensiamo ai roghi, alle violenze religiose, ai flussi di profughi – il luogo che mi viene in mente è la Siria. Si vada a domandare ai siriani che cosa pensano della felicità. Sembrerà una domanda indecente”. Motivo sufficiente perché i protestanti non facciano della felicità, bene più desiderato dagli uomini, una questione essenziale della loro teologia?
La speranza in Dio è un concetto fondamentale della felicità protestante
Responsabilità dell’uomo
Difficile trovare opere protestanti di riferimento sull’argomento, con qualche eccezione – come ad esempio il libro della teologa svizzera Lytta Basset “La joie imprenable” (“La gioia inafferrabile”), pubblicato nel 1996 dalle edizioni Labor et Fides. “Mi sembra che l’educazione di ispirazione cristiana – afferma Basset – abbia spesso sospettato di egoismo l’attaccamento naturale dell’essere umano alla ‘propria felicità’. Dimenticando che il prossimo a noi più prossimo siamo noi stessi, ha relegato la gioia nel capitolo degli argomenti futili, secondari, persino disdicevoli”, spiega l’autrice. Ghislain Waterlot aggiunge: “Il concetto di responsabilità davanti a Dio e agli uomini è la prima preoccupazione del protestante. Per questo motivo sarà più attento alle difficoltà altrui ed eviterà ogni gioia personale”. Non si tratta tuttavia di trascurare se stessi, precisa, quanto di “saper coordinare la propria felicità con la propria responsabilità in questo mondo, davanti alle ingiustizie e all’infelicità altrui. Il protestantesimo non dice: siate infelici! Ma piuttosto: non avete il diritto di essere felici ad ogni costo”.
La Ginevra di Calvino (Segni dei Tempi RSI La1)
Speranza in Dio
Che cosa intendiamo per felicità? “Se consiste nell’accumulo di beni e nell’assenza di sofferenza, allora il protestantesimo non ha molto da dire. Ma se la felicità è ciò che resta al di là delle cose materiali, allora ha una parola forte da offrire”, spiega Michel Grandjean. Lo storico della Riforma evoca il commento di Martin Lutero al versetto 12 del Salmo 5 [Lutero, Studi sui salmi]: “Abbiamo l’indicazione del luogo in cui si trova la vera gioia […], cioè la fiducia nella misericordia divina […] Coloro che sperano in te [in Dio, ndr.] si rallegreranno ed esulteranno per sempre”.
La speranza in Dio: un concetto fondamentale della felicità protestante. “Beati voi che ora piangete, perché sarete consolati”, afferma la Bibbia nelle Beatitudini. Una promessa che rinvia la felicità a dopo? “Nient’affatto”, ribatte Michel Grandjean. “C’è un collegamento tra ciò che spero per domani e quello che vivo oggi. Si immagini un innamorato che attende l’innamorata all’aeroporto. Prima ancora di vederla, soltanto pensando a lei, trabocca di gioia. È questo che chiamiamo speranza. La speranza per dopo ha già un’incidenza concreta sulla mia felicità in questo momento”.
La fiducia nella misericordia divina assicura la vera gioia (Martin Lutero)
Realizzazione personale
Professore di psicologia della religione presso la facoltà di teologia e di scienze delle religioni di Losanna, Pierre-Yves Brandt ritiene che la felicità, intesa in una prospettiva cristiana, si raggiunga quando “siamo in sintonia con ciò che siamo chiamati a essere sulla terra”.
Se la felicità cristiana consiste nel compiere la volontà di Dio, resta da sapere qual è questa volontà. “L’uomo deve accettare che non potrà mai salvarsi da sé e che per realizzarsi, gli manca qualcosa”, spiega ancora Brandt. “Deve accettare di entrare in un movimento di spossessamento. Solo così può impegnarsi in una relazione con l’altro e con Dio. Si mette in moto. Nulla a che vedere con ciò che propone la nostra società, in cui ciascuno cerca piuttosto di stare al sicuro e di salvare se stesso”.
Spossessarsi di sé non significa sganciarsi dal mondo. “I protestanti pensano alla felicità in relazione alla creazione, buona ai loro occhi benché distorta dal peccato”, sottolinea Ghislain Waterlot. “Provare gioia nella contemplazione di un paesaggio di montagna, di un’opera d’arte o ancora imparare le scienze sono elementi ai quali i protestanti sono sensibili. E in fondo è probabile che la felicità si trovi essenzialmente in questo: nella capacità di cogliere il sapore dell’attimo che stiamo vivendo”. (da Réformes, trad. it. G. M. Schmitt)