“Questa Terra è la tua Terra, questa Terra è la mia Terra” declamava Woody Guthrie (1912-1967).
Forse non arbitrariamente ho sempre interpretato quel verso (e titolo della sua autobiografia, in lingua italiana pubblicata ancora nel 1977 da Savelli e poi da Marcos y Marcos nel 1997) del folksinger comunista libertario come espressione di senso di appartenenza, NON di proprietà. Ipotesi confermata da altri versi rivelatori (anche se talvolta censurati o edulcorati):
“There was a big high wall there that tried to stop me; Sign was painted, it said private property; But on the back side it didn’t say nothing; That side was made for you and me.
C’era un gran muro alto che provò a fermarmi; c’era scritto su un avviso, “proprietà privata”; ma sul lato di dietro non diceva nulla, quel lato era fatto per me e per te”.
Quindi, anche se della mia patria ancestrale non possiedo niente di niente (anche all’epoca eravamo in affitto) e ne sono stato forzatamente sradicato ancora fanciullo (negli anni sessanta, destino comune a molti abitanti del contado “senza terra” costretti dalle dure leggi del mercato a riciclarsi come operai o murari…e trasferirsi nelle periferie urbane) quando sento parlare di San Piero Intrigogna, Casale e Debba mi sento chiamato in causa.
Perché nella mente risuonano echi lontani e si ridestano ricordi profondamente sedimentati. Del resto, oltre ai ricordi, qui riposano gran parte dei miei parenti e antenati: nonni, zii, cugini… Anche chi se n’era dovuto partire, alla fine aveva preteso di venir seppellito o al cimitero di Casale o a quello (al di là del fiume, ma di fronte) di Longara.
Sempre a Casale, nel piazzale della vecchia chiesa, c’è anche la lapide per i caduti della Seconda G. M. Con i nomi di due miei zii (anche se credo che di tale “onore” ne avrebbero fatto volentieri a meno).
Alla fine sembra proprio che intendano costruirlo. Anche con la nuova amministrazione vicentina di centro-sinistra. Pare per i costi proibitivi di un ammodernamento con innalzamento del ponte storico (o a fianco dello stesso). Invece per il mega viadotto i soldi ci sarebbero…?!? Mah?!?
Ricapitolando. Confesso che l’anno scorso, alla notizia del devastante progetto di un viadotto alto sette metri, largo undici e lungo oltre mezzo chilometro che dovrebbe scavalcare il Bacchiglione e stravolgere le campagne circostanti, subito dopo lo sconcerto e l’indignazione, provavo anche un certo senso di rivalsa verso quei “nativi” (miei compaesani di allora o loro discendenti) che oltre a poter continuare a vivere nei luoghi natii, li avevano già in parte deturpati. Magari abbattendo antichi casolari (compresi alcuni piccoli casoni già resi abitabili artigianalmente nel secondo dopoguerra mantenendo inalterate strutture e volumi) e sfrattandone gli affittuari per sostituirli con villette o condomini (a scopo di lucro ovviamente).
Ma poi era prevalso il disinteressato legame con quei paesaggi e territori. I due fiumi che qui confluivano alle “Boche del Tesena”, le anse, le siese, l’antico campanile della chiesa dove – mio malgrado col senno di poi – ero anche stato battezzato (da don Giuseppe credo) e cresimato (dal vescovo Zinato, nientemeno). Per non parlare del ricordo struggente delle processioni dalla chiesa al capitello della Madonna (con la massima scolpita “Iter para tutum” che all’epoca per me era assolutamente misteriosa, incomprensibile, ma comunque altamente evocativa) con le rose sparse davanti al corteo…
Bene, (anzi: male!), proprio sopra al capitello, più o meno, dovrebbe transitare il viadotto, per annichilirlo sia visivamente che simbolicamente.
Qualche ricordo personale a supporto. Come già detto, ho trascorso l’infanzia nel paesello di San Piero Intrigogna (tra l’altro, proprio di fronte alla base “Pluto”, appena al di là del Bacchiglione). In prossimità delle “Boche del Tesena” (con la “e”), dove il Tesina (con la “i”) confluisce nel Bacchiglione. E il fiume Tesina, ricordo, non è altro che la prosecuzione dell’Astico che nasce in Trentino, di fronte a Lavarone e alla cimbra Luserna, transita per Casotto (dove vive la più consistente comunità di Sartori della provincia e da dove sembra provenissero i miei avi paterni) e Scalzeri da cui si inerpica verso Luserna un sentiero già percorso dai partigiani della Brigata Ismene. Le sue acque spumeggianti lambiscono poi San Pietro Valdastico, Pedescala (tristemente noto per l’eccidio nazi-fascista, la maggior parte delle vittime vecchi e bambini), Barcarola e Arsiero. Scorre sotto al salto dei Granatieri (quello del Monte Cengio che Fogazzaro contemplava da Velo d’Astico) e supera Cogollo del Cengio. Proprio su questo tratto si sta svolgendo la seconda puntata del dramma “Autostrada A31, No grazie!”.
Mentre non si sono ancora spente le polemiche in merito alle ville palladiane sfiorate dall’invadente infrastruttura e per le tonnellate di rifiuti tossici (da fonderie) riversati lungo il percorso del tratto a sud. Oltre al dubbio fondato che la contestata tratta Vicenza-Rovigo abbia tutti i requisiti di un “corridoio militare-industriale”.
Rappresentando un raccordo ottimale per le basi statunitensi presenti nel vicentino (Pluto, Ederle, Dal Molin, Fontega…). Niente di strano se anche il previsto viadotto non mancherà di svolgere adeguatamente tale funzione.
Visto che sulla Riviera Berica i mezzi militari di maggiori dimensioni incontrano qualche difficoltà (già in diverse occasioni sono rimasti incastrati sotto all’autostrada a S. Croce Bigolina) e che i due ponti storici di Debba (stretti e a percorso alternato) li rallentano.
Proseguendo nel suo corso, con un’improvvisa deviazione, relativamente recente stando ai tempi geologici, l’Astico si infila poi si infila tra l’Altopiano di Asiago e le colline Bregonze, sfiora o attraversa Caltrano, Chiuppano e Calvene per poi riprendere la corsa verso sud. Tocca Breganze (un saluto a Firmino Miotti, quello dei “magnasoete” di Virgilio Scapin e al suo incredibile torcolato), Sandrigo, Lupia e Lupiola. Nei pressi di Lupia riceve dalla sinistra orografica le acque di un piccolo corso d’acqua che nasce poco prima da una risorgiva, il Tesina appunto. Cambia quindi nome, ma il percorso e la direzione rimangono quelli dell’Astico la cui natura torrentizia lo rende potente in periodo di disgelo. Per chi cammina sull’argine della destra orografica non è facile individuare quale sia il punto del cambio anagrafico.
Da segnalare la presenza, almeno fino agli anni cinquanta, di qualche esemplare di lontra nella striscia di terra all’epoca ricoperta da folta vegetazione. La zona venne devastata per iniziativa istituzionale una ventina di anni fa. Alberi tagliati, anse raddrizzate, rive cementificate. Trasformando, come scrissi allora in un articolo “il limpido corso d’acqua in un canale di scolo”. Più recentemente (un autentico teatro dell’assurdo), per usufruire di finanziamenti europei, è stato realizzato un progetto di rinaturalizzazione dell’area. Un po’ come fare affari ricostruendo dopo aver scatenato una guerra. Ovviamente un palliativo, un pro-forma visto che il danno ormai era stato fatto. Il cammino del fiume prosegue verso Bolzano vicentino, Quinto, Marola e Torri di Quartesolo, sfiorando la militarizzata periferia est di Vicenza (San Pio X, Bertesinella…) e confluendo nel Bacchiglione a poche centinaia di metri dal campanile di San Piero Intrigogna. Prima della confluenza riceve da destra la roggia Caveggiara; altra nostra battaglia persa quando cercammo, invano, di evitare il taglio della prosperosa vegetazione per allargare l’alveo del corso d’acqua. Bastava avessero chiesto, per esempio, a mia madre Rosa Sgarabotto che ricordava benissimo come negli anni trenta il fondo della Caveggiara fosse stato rivestito di lastre di pietra. Al momento di scavare, dopo aver diligentemente abbattuto ogni olmo, ontano, pioppo, salice e moraro (gelso) presente lungo le rive, si accorsero che l’operazione non era fattibile e lasciarono tutto com’era (tranne ovviamente per gli alberi irreparabilmente estirpati). Tutta ‘sta storia, per dire che in un certo senso il sistema Astico-Tesina costituisce la spina dorsale, liquida, delle campagne vicentine, dalle Prealpi alla pianura vera e propria. Un corridoio naturale che dopo San Piero Intrigogna prosegue come Bacchiglione attraversando Padova e raggiungendo il mare (vedi le foci del Brenta, in realtà quelle antiche del Bacchiglione), i cui argini vengono ancora ancora utilizzati nelle transumanze verso i pascoli montani (per esempio da qualche pastore di Lumignano).
Anche se da qualche decennio si va trasformando in un nastro di cemento e asfalto, circondato da caselli, aree industriali, basi militari e altre schifezze. Stando ai racconti di mia nonna Pina (da ragazza lavorò come mondina, sia a Grumolo che a Mossano), la lontra agli inizi del secolo scorso frequentava anche la zona delle Boche del Tesena. Lei la chiamava “sgora”, essere misterioso che trascinava in fondo al fiume i bambini discoli; forse una variante, più che della relativamente mite anguana, dell’aganis friulana.
Fino ad un paio di decenni or sono, mi capitava di incontrare qualche anziano che si ricordava di mio nonno Augusto, un “obligato” (bracciante a giornata, contadino povero senza terra). Proprio in questo spicchio di terra retaggio delle bonifiche del 1300, aiutato da mio padre ancora bambino, e dal nonno Giusto venne incaricato dal proprietario dell’abbattimento di alcuni morari e albare rimasti in parte ricoperti dal terrapieno del nuovo argine. Tutto “a man col pico, la baila e la cariola” racconta mio padre. In cambio del duro lavoro, ai miei familiari sarebbero toccate le rame alte e le soche estratte dal terreno. Il legname più pregiato, sia per lavori che per riscaldamento, quello del tronco e dei rami più grossi, ovviamente andava ai paroni. Per saperne di più sul “piccolo mondo antico” di San Piero, Deba e Casaleto suggerisco la lettura di “Mio padre partigiano” (un articolo pubblicato nel 2003****) dove ho raccontato di un tentativo fascista di far ingurgitare a mio nonno l’olio di ricino (previa manganellatura di rito). La bieca operazione venne stroncata da mia nonna a colpi di forcone. Non fu invece altrettanto fortunato mio zio Attilio Fasolato (detto Tilio, come l’albero), operaio e sindacalista allo stabilimento Rossi di Debba. Oltre a subire l’ignobile umiliante violenza, restò quasi cieco da un occhio. Solo recentemente ho saputo che la stessa sorte era toccata anche ad un vicino dei miei, el scarparo Farinello, anche lui socialista. Costui trovò però il modo di vendicarsi. Fingendo di accettare umilmente la predica e le raccomandazioni per “comportarsi bene in futuro”, dopo il pestaggio acconsentì a offrir da bere alla squadraccia. Portò in tavola del cordiale a cui aveva aggiunto parecchie gocce di un forte lassativo. Ritornate a casa, le camicie nere dovettero immediatamente correre al cesso. All’intraprendente antifascista (in seguito ospite delle patrie galere) arrivò una lettera minacciosa che lo preavvertiva di una ulteriore visita non propriamente di cortesia. Ma i socialisti del luogo si organizzarono. Quando il camion della spedizione punitiva transitò per la Riviera Berica, i compagni vennero allertati, come era stato convenuto, dal suono delle campane di San Piero Intrigogna. Prontamente radunatisi, bloccarono la squadraccia all’altezza della Pontara tra Debba e San Piero e l’olio di ricino venne forzatamente ingerito dai componenti della squadraccia. Un piccolo gesto di resistenza di cui si era persa la memoria e che riscatta la popolazione locale, talvolta troppo umile e sottomessa al potere. E dopo quelli dei fascisti, sulla strada che da san Piero porta a Vicenza passando per Casale (all’epoca ancora strada bianca) passarono i camion statunitensi. Il mio primo incontro risale agli anni cinquanta. Abitavo a Casaletto, una contrada la cui parte più consistente era costituita dall’abitazione e dalle stalle dei Dalmaso, gli affittuari. In prossimità di una piccolo rilievo, el monteseo, recentemente devastato da alcune costruzioni e da un centro di addestramento per cani. I camion passavano sollevando la polvere e un nugolo di bambini correva loro incontro gridando “ciunga” (termine dialettale per indicare la gomma da masticare) mentre i soldati lanciavano sbrancà di chewing gum e qualche caramella. I ragazzini si accapigliavano rotolandosi per terra per strapparsi il misero bottino. Ricordo che me ne stavo appoggiato al portone e non partecipavo. Forse per timidezza, forse per dignità. In ogni caso provando vergogna per lo spettacolo “coloniale”. Tornando ai giorni nostri, a non più di 2-3cento metri dalla citata Pontara, troviamo gli storici ponti di Debba, sovrastati dalle case operaie e dallo stabilimento Rossi. Oltre a mia madre, vi lavorarono come operai quattro o cinque tra zii e zie. La sorella maggiore di mia madre, Marcella moglie di Tilio, vi entrò ragazzina, quando la fabbrica era ancora un canapificio (denominato canapificio Roi, risaliva all’800; poi linificio e infine cotonificio fino agli anni settanta). All’epoca del canapificio si lavorava immersi nell’acqua fredda corrente, con conseguenze ben immaginabili (gravi forme di reumatismi). Altre notizie storico-paesaggistiche sulla zona. A Debba, dove il Bacchiglione si divide in due rami, vanno segnalati il casello idraulico (l’abitazione del guardiano, nel dopoguerra un “compare” di mio nonno) e la conca di navigazione (costruita nel 1583) realizzata dalla famiglia veneziana dei Bonrizzo per consentire la risalita del fiume alle barche provenienti da Venezia. Senza dimenticare la briglia idraulica (conosciuta in paese come “le roste”, la cascata) e il mandracchio dove sostavano le barche in attesa del riempimento della conca (ancora identificabile la bricola di attracco).
Per finire, il ponte Geisler del 1885 con le travature reticolate in ghisa.
Questo per quanto riguarda Debba. Per San Piero Intrigogna, oltre alla chiesa e al campanile risalenti all’anno Mille (e alla piazzetta che corrisponde alla curtis delle monache benedettine), degna di nota la settecentesca villa Rubini, opera presumibilmente del Bertotti Scamozzi e di cui conservo le foto con i pilastroni ancora ornati da due grandi vasi decorati (poi, prima quello di sinistra, successivamente anche quello di destra, asportati illegalmente).
Su una dei pilastroni si intravede ancora un’antica scritta risalente agli anni settanta: “Yankees go home!”.
Gianni Sartori
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