Rallegratevi. Esultate. Sfavillate. Il profeta Isaia ci invita, io direi ci comanda ad un tripudio di gioia, ad un trionfo di gioia. Bene, non so voi, ma faccio sempre grande fatica, umanamente, naturalmente, quando si parla di gioia. Non è facile parlare della gioia, anche perché non si può propriamente parlare della gioia; semmai è la gioia che può parlare. Siamo sempre un po’ ridicoli quando ci mettiamo lì a parlare della nostra gioia, a esplicitare ciò che in realtà già parla, eccome se parla, ciò che parla nei nostri volti, nei nostri occhi, nei nostri sorrisi.
E faccio ancor più fatica perché come indole non sono propriamente un entusiasta. Leopardi è indubbiamente il mio poeta preferito – ogni tanto penso che potrei continuare l’ascesa del suo pessimismo: individuale, storico, cosmico, fondando la corrente del pessimismo teologico – ma, al di là delle battute, ve lo confesso apertamente perché credo possa aiutare altri, perché credo non sia solo la mia… e, soprattutto, perché credo nasca dal reale, dalla profondità del reale, dalla sofferenza che è insita nella realtà, nella creazione “che geme e soffre”, come dice San Paolo.
E in un mondo che geme e soffre, ci viene comandato di rallegrarci, di esultare, di sfavillare. E come è possibile? Non possiamo negare la realtà, non possiamo negare il dolore. Chi di noi qui non ha un dolore, più o meno grande, nel corpo o nello spirito? Chi di noi qui ora, mentre parlo, non sta soffrendo qualcosa? E se non soffre lui, chi non soffre per la sofferenza di qualcuno a cui vuole bene? Come si fa a gioire, mentre si soffre? Gioia e dolore. Gioia nel dolore, dolore nella gioia. Ecco il nostro grande paradosso. Paradosso. Parola meravigliosa. Deriva dal greco, parà – contro – la doxa – cioè l’opinione comune. Il paradosso è qualcosa che va contro l’opinione comune. E l’opinione comune è che gioia e dolore si contraddicono. Ed in un certo è senso questo è vero. Eppure la parola di Dio ci dice che in un altro senso non è così. Possono coesistere. Insieme. Et – et.
Ecco, la nostra meravigliosa fede, infatti, per il mistero dell’Incarnazione non può che essere un grande abbraccio al mondo, a tutto il mondo. L’unica cosa che non possiamo abbracciare è il peccato, anche perché il peccato propriamente non è, è non vita, non godimento, non bellezza, è non essere. E non si può abbracciare ciò che non è. Di tutto il resto, la nostra fede ne fa un grande abbraccio, nella logica sempre dell’et-et. Equilibrio santo, equilibrio da santi: tenere insieme le cose, tenere insieme il Vangelo, le parole di Gesù, tutte; tenere insieme la realtà, tenere insieme l’uomo – tutto – corpo, anima e spirito, sentimenti, volontà e ragione; tenere insieme le persone tra loro, tenere insieme le persone e Dio. Et – et.
E invece, quanto solitamente siamo molto più vicino all’aut-aut: questo oppure quello. Lui sì, lei no. Fede oppure ragione. Ragione oppure sentimento. Uomini o Dio. Aut – aut. Gioia oppure dolore. Sei stai soffrendo non puoi essere felice. Se sei felice non puoi soffrire. Mai. Aut – aut.
Ecco, questo credo sia l’inganno di fondo del grande menzognero di sempre. Quell’inganno sul quale costruiamo i nostri falsi schemi e, peggio ancora, li usiamo per spiegare la vita nostra e delle persone che ci sono vicine. Teniamo presente questo inganno, vale per ogni cosa. Diceva il geniale C.S.Lewis che il demonio manda nel mondo gli errori a coppie di opposti e nello spingerci, nel fomentarci a combattere – giustamente – contro uno di essi, ci spinge inesorabilmente verso l’altro.
In medio stat virtus, dicevano gli scolastici medievali. L’equilibrio. Ancora una volta, l’equilibrio dei santi, l’abbraccio dei santi al mondo.
Dunque, anche qui, abbiamo i nostri due estremi: il primo è chiaro, abbastanza, è il dolorismo, il pessimismo, l’aria perennemente triste e malinconica, il cristianesimo che finisce il venerdì santo; quello che ci spinge ad essere insopportabilmente lamentosi e critici, disperati e cupi, perché “qui siamo nel dolore; gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti; quasi tutti sono fatica e dolore”, lo dice anche la Parola di Dio. La gioia è altrove, nell’al di là, nel paradiso. Qui non c’è gioia, mai, mai, letteralmente, mai ‘na gioia. Ora io sto caricaturando un po’, ma basta farvi un giro su instagram, insomma: gare senza sconti di stati deprimenti, da eterne vittime, pure in salsa cristiana, pure da cristiani. Immagino sarà stato questo a spingere Nietzsche verso la morte di Dio: perché se il cristianesimo è questo, c’aveva ragione lui. No, davvero, faccio mea culpa, me per primo, noi sacerdoti per primi, noi consacrati per primi.. immagino che sacerdoti avesse visto per scrivere nel suo Così parlò Zarathustra:
«Mi fanno pena questi sacerdoti: per me sono dei prigionieri e dei marchiati. Colui che essi chiamano redentore, li caricò di ceppi. Di ceppi di falsi valori e di folli parole! Ah, se qualcuno potesse redimerli dal loro redentore!».
Dobbiamo essere leali, fratelli e sorelle: a volte è così, a volte sembra che sarebbe bene che qualcuno ci redima dal nostro redentore per l’effetto che ci fa! Dobbiamo essere leali, non certo per farci venire i sensi di colpa, ma per aprire davvero le porte a Gesù Cristo! Basta ammettere a se stessi la cosa e chiedere aiuto: non ho alcuna gratitudine per la vita, la concezione del mio esistere è pressoché quella di Schopenauer – la vita è come un pendolo che oscilla fra la noia e il dolore – e Dio è solo la parola fine di questa mia vita – la buona notizia è che finisce, ecco il mio vangelo si condensa nell’annuncio che sta vita prima o poi finisce.
Ecco, questo è evidentemente un estremo malato, da combattere, da combattere. Un po’ ce l’abbiamo tutti dentro, ma non possiamo nutrire questa bestia. È male. Ci divora. Ci distrugge.
Eppure, se questo è alquanto evidente, esiste un altro estremo, l’estremo opposto, meno evidente, ma ugualmente devastante. Anche la gioia ha il suo estremo: non nel senso che si possa essere troppo contenti, ovviamente, ma nel senso che si possa essere falsamente contenti, stupidamente contenti, aggressivamente contenti. È il cristianesimo della domenica di risurrezione, quello che ha tolto la croce e saltato l’attesa del sepolcro. È il cristianesimo che fa della gioia un’ideologia, come il nazismo, come il comunismo, come tutte quelle ideologie che vogliono imporre l’idea sul reale. È il cristianesimo che vuole imporre a colpi di frusta il paradiso sulla terra e nel cuore degli uomini. Guardate che è altrettanto malato del cristianesimo triste, dimentico della croce che sanguina, dimentico del seme che muore e marcisce prima di dar frutto, dimentico della pazienza di Dio, dormiente in un sepolcro, prima di risorgere. Quel cristianesimo che ti impone di essere contento, che te lo fa pesare, che ti fa sentire in colpa: beh, sei cristiano che è sta faccia?! Su il cristianesimo è gioia, è felicità.
È un cristianesimo ridicolo. Scusate, rischiamo di diventare ridicoli a volte. E di diventare una contro testimonianza. Se volete un’immagine, è la caricatura di Pollyanna. Immagino molti di voi da piccoli avranno letto questo simpatico romanzo che ha come protagonista questa piccola bambina insopportabile, intrisa di glucosio, che va diffondendo per il mondo un gioco, un gioco straordinario, un gioco lasciatole in eredità dal papà, ovvero il gioco della felicità! In cosa consiste questo gioco? Nell’essere contenti, sempre. Muore tua zia? Evviva! Ti rompi una gamba? Evviva. Perdi il lavoro? Evviva! Ora, sto scherzando, ma guardate che a volte ragioniamo così, parliamo così: stai male? Beh, è la croce, Gesù sceglie i suoi più intimi per dagli queste sofferenze. Qualcuno a te caro muore, magari anche da giovane, improvvisamente: beh, Dio coglie i fiori più belli, ora è nel giardino di Dio. Guardate che queste cose le diciamo! E sono ridicole, scusate, non sono evangeliche. Cristo ha pianto di fronte alla morte di Lazzaro, e sapeva che tra poco lo avrebbe resuscitato, eppure ha pianto! Cristo ha sudato sangue, ha tremato, ha chiesto che gli fosse tolta quella croce, perché umanamente non la voleva, altro che eletto di Dio! La croce è la logica nostra, non di Dio: Dio l’ha assunta su di sé per amore nostro, ma non sta lì ha organizzare crocifissioni per trarre gli uomini a sé. Stiamo attenti a parlare della gioia, stiamo attenti a rendere ridicola la nostra fede.
Stiamo nel mezzo, allora. Stiamo nel Vangelo, stiamo sul vangelo. E ascoltiamo il vangelo, ascoltiamo Gesù, impariamo da Gesù.
Stiamo leggendo il vangelo di Luca. Come abbiamo ascoltato ieri, Gesù sta andando a Gerusalemme. Sta andando a Gerusalemme per morire, non è propriamente un viaggio di piacere: infatti, il vangelo ci dice che si diresse decisamente, letteralmente “rese la sua faccia dura come pietra”. Dunque, Gesù, per amore, con volontà di amore verso il Padre e verso la nostra salvezza, fa forza alla sua volontà per andare incontro alla morte, alla morte di croce. Restando in ciò che siamo detti, Gesù non va saltellando a Gerusalemme, cogliendo margherite e cantando l’alleluja delle lampadine: Gesù deve rendere di pietra la sua faccia, il momento è duro, la decisione è dura.
In questo viaggio passa per la Samaria, dove non ha proprio una buona accoglienza, e ricorda a chi vuole seguirlo la esigenza della vocazione apostolica. Terminato qui il capitolo nove, inizia il capitolo dieci, quello che ascolteremo domenica. Gesù designa altri 72 discepoli – 72, numero simbolico che indica la totalità, richiamando tutti i popoli della terra dopo il diluvio in Genesi 10 – e dà loro alcune raccomandazioni per la missione.
In questi 72 discepoli ci siamo anche noi; anche noi siamo mandati da Gesù. Anche noi siamo mandati da Gesù: sei battezzato? Sei in missione per conto di Dio, come i Blues’s brothers. Ovunque. Qualsiasi cosa tu faccia. Qualsiasi. Ma siamo mandati in quell’ottica, in quell’equilibrio da funamboli di cui abbiamo parlato. Gioia e dolore. Croce e risurrezione.
Il vangelo ci dice che questi discepoli tornarono pieni di gioia. Pieni di gioia per il successo apostolico: come a dire, è fatta! Persino i demoni si sottomettono a noi, cioè abbiamo vinto, Gesù, abbiamo vinto, il male si può sconfiggere, è sconfitto. Ora badate bene, questa è una vera gioia. Gesù non la distrugge: Lui stesso sottolinea che è il frutto del suo potere dato loro, Lui stesso dice di vedere Satana cadere come folgore. È bene così. È giusto. È santo. Però aggiunge Gesù e qui è tutto il cuore di ciò che vorrei dire questa sera, in queste profondissime e stupende parole di Gesù:
«Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
In queste parole di Cristo è il segreto della vera gioia, della gioia del discepolo. Gesù ci invita ad una gioia più profonda; non per toglierci le gioie vere, della vocazione, del vedere l’opera di Dio attraverso di noi, del vedere frutti della nostra semina – ma per proteggere quelle gioie, custodendole nel profondo del cuore, nello scrigno del cuore dove risiede la fonte della gioia, lì dove solo possono stare insieme, anche qui sulla terra, dolore e gioia, croce e risurrezione. Gesù ci invita a porre la nostra gioia nel fatto che i nostri nomi sono scritti nei cieli. Che significa?
In diversi luoghi della Scrittura si parla del libro della vita, dove vengono scritti i nomi di coloro che sono ordinati alla vita eterna. Ma vorrei tornare un attimo al libro dell’Esodo, al capitolo 32, lì dove si parla del vitello d’oro. Ricorderete l’accaduto: Mosè si trova sul monte con Dio per ricevere le tavole della Legge, tarda a scendere, e allora il popolo si costruisce un vitello d’oro, che elegge a proprio dio, che cammini alla loro testa e venga portato da loro stessi in processione. Ecco il vitello d’oro è il peccato originale del credente. Non si tratta di paganesimo, non è la rivalità con un altro dio, è lo stesso dio, il Dio d’Israele, ma ridotto alla propria portata; è la tentazione che abbiamo tutti di ridurre Dio a noi – Dio troppo grande, troppo sapiente, troppo bello, così imprevedibile, così alto nei suoi pensieri – è meglio ridurlo un po’, è meglio rimpicciolirlo un po’ e così poter essere noi a portare Dio dove vogliamo; il vitello d’oro è Dio, ma a modo mio. È la fine dell’amore, perché è la rottura della relazione. Ed è per questo che Dio dice: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me», perché non si può godere dell’amicizia di Dio se gli si toglie la libertà di essere Dio. Al contrario, se i nostri nomi sono scritti nei cieli, se i nostri nomi, ovvero noi – biblicamente il nome è la persona, tutta la persona – se tutto me stesso è in relazione con Dio, è in comunione con Dio, allora sì che si può sperimentare quella gioia piena di cui parla Cristo ai suoi amici. È questa la vera gioia, la gioia del discepolo: è la gioia di chi sa di essere stato salvato e vive una relazione vera con Dio, dove non manipola Dio. Dio mi ha liberato e io lo lascio libero di fare Dio. Io sono contento perché io e Dio ci amiamo come due persone libere, in una relazione vera: e allora, io posso essere contento anche quando Dio mi dice di no, anche quando non fa ciò che vorrei io, perché ciò che mi rende felice non in primo luogo ciò che Dio fa, ma ciò che Dio è per me. La gioia del discepolo è ancorata alla sua relazione con Dio: la mia gioia, qui, questa sera, non sarà il frutto di questa catechesi, non sarà nel numero dei partecipanti, non sarà nemmeno ancorata al numero delle conversioni: la mia gioia sarà tra poco, quando io e Dio saremmo faccia e faccia, liberi e amanti. E questo vale per ognuno di noi, qui. Questo vale per ogni uomo.
Certo, questo implica per forza di cose un’ascesi della gioia, cioè un esercizio, quotidiano, a coltivare sopra ogni cosa la relazione con Dio. Se è vero che la gioia è un frutto dello Spirito, è anche vero che questo frutto lo gusta solo chi semina il terreno. Solo in una visione pagana la gioia è frutto del fato, della fortuna, capita ad alcuni, non capita ad altri; in una visione cristiana la gioia è donata, certamente, a chi cerca Dio, a chi ripone tutto in Dio, nella relazione d’amore con Dio.
Una relazione che, in Cristo, non può che essere filiale. Il Padre è il senso del mondo; la gioia è sentirsi e sapersi sempre figli amati. Come descrive meravigliosamente il profeta Isaia:
Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò;
a Gerusalemme sarete consolati.
Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,
Pensate se credessimo veramente di essere come bimbi allattati, portati in braccio, accarezzati da Dio. Ultimamente per me la catechesi più bella me la fa sempre mio nipote Giulio, nemmeno un anno e mezzo: il suo sorriso, la sua gioia, una gioia confidente nell’amore nella mamma, del papà, dei nonni, è quella che mi manca, è lì che siamo mancanti. Il senso del mondo è il Padre; la gioia del mondo è l’essere figlio. Cristo ha potuto morire sulla croce, proprio perché Figlio, proprio perché era certo dell’amore del Padre: nulla di male, veramente, può accadere ad un figlio quando è nell’amore del Padre, un Padre onnipotente, un Padre buono.
Padre e figlio. Mi viene in mente lo straordinario romanzo di Cormac McCarthy, La strada. Un romanzo durissimo, eppure allo stesso tempo profondamente dolce. Come il cristianesimo. Et – et.
Immaginate uno scenario post-apocalittico: una catastrofe non ben precisata ha devastato il mondo come lo conosciamo; non c’è più cibo, gli uomini, affamati, sono ormai in competizione tra loro per sopravvivere, gli uomini sono ormai cibo l’uno per l’altro.
Io ci ho sempre visto un potentissimo richiamo alla condizione del mondo dopo il peccato originale, l’unica vera catastrofe umana e naturale, che ci ha divisi gli uni dagli altri, in competizione per un po’ di potere, per un po’ di cibo, per un po’ d’affetto e di amore.
Nella desolazione di questo mondo distopico, l’unica speranza sono un padre e un figlio, e il loro amore. L’unico fuoco a dare luce, speranza, senso a questo mondo è il loro amore.
Lo Spirito Santo, l’amore tra Cristo e il Padre è la segreta gioia del mondo. Il fuoco di questo amore, visibile solo agli con gli occhi della fede, è la profonda gioia del reale. Chiediamo questo fuoco, tra poco, volto a volto con Gesù: che ci consumi di Lui per Lui; che ci inabissi nelle profondità della gioia di Dio, dove niente di male può succederci; come nel dialogo bellissimo del libro di McCarthy tra il figlio e suo padre, con il quale concludo:
Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto. Non ci succederà niente di male.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.
ADMIN @COSTANZAMBLOG | costanzamiriano.com
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