Commissione «carceri e giustizia» della Federazione delle chiese evangeliche.
A Firenze un incontro di formazione alla pastorale penitenziaria ha approfondito il significato di una giustizia che promuova la riparazione del danno e la riconciliazione, superando il concetto di castigo. È una calda giornata primaverile, quella di sabato 29 marzo a Firenze. Le porte della chiesa battista si aprono per accogliere poco più di quaranta sorelle e fratelli provenienti da diverse parti d’Italia: luterani, metodisti, valdesi, battisti, della Chiesa dei fratelli, convocati, uniti dalla Commissione «Carceri e giustizia» della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), con l’obiettivo di condividere insieme una giornata di formazione, conoscenza e scambio delle buone prassi pastorali da parte di chi svolge il ministero del servizio alle persone ristrette delle libertà, detenute.
Formazione. È questa la parola che tesse le trame dell’intera giornata. Come in molti ambiti anche quello delle carceri è uno dei luoghi in cui non ci si può improvvisare. Non basta essere ministri di culto, membri di chiesa impegnati e volenterosi di annunciare l’Evangelo della grazia a chi è recluso. Ciascuno dei partecipanti, così come molti lettori interessati alla questione, sa benissimo che quando si entra in carcere, una volta lasciato il proprio documento d’identità presso il block house, ancora prima di sentire il cupo rumore di un cancello che ci si chiude alle spalle, si entra in relazione con una struttura e con il regolamento che consente di muoversi e di agire all’interno, con un ruolo specifico, dove nulla può essere lasciato al caso o all’improvvisazione, dove le prime conoscenze avvengono nei dialoghi con gli agenti della polizia penitenziaria, purtroppo spesso dimenticati, anche quando parliamo di ministero all’interno degli Istituti di pena.
Nel primo dei tre appuntamenti formativi, abbiamo ascoltato la relazione di Maria Pia Giuffrida, una dirigente del ministero della Giustizia, entrata nel mondo penitenziario dal 1979, e che si è occupata delle misure alternative alla pena per 33 anni, oltre a ricoprire altri incarichi di rilievo. Sarà di prossima pubblicazione un’intervista integrale sui contenuti della giornata di Firenze, dove il tema principale della sua relazione è stato il «Trattamento» penitenziario, letto in un’ottica di giustizia riparativa. Provando a fare una sintesi sulla definizione di giustizia riparativa, essa può essere definita come un modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. La sfida che la giustizia riparativa lancia, alle soglie del XXI secolo, è quella di cercare di superare la logica del castigo, del carcere visto come luogo di punizione, muovendo da una lettura relazionale del fenomeno criminoso, inteso primariamente come un conflitto che provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise.
Il reato non dovrebbe più essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o come un comportamento che infrange la legge e incrina l’ordine costituito – e che richiede una pena da espiare –, bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte, e che richiede, da parte del reo, principalmente l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato. Il tempo della pena diventa, nella prospettiva riparativa, momento fondamentale per riattivare il circuito delle responsabilità individuali e relazionali con il mondo di riferimento, occasione per il condannato di essere sostenuto verso l’assunzione di una responsabilità individuale e il riconoscimento di una dimensione di responsabilità sociale e collettiva.
Ecco che il ministero pastorale con le persone ristrette può collocarsi anche come luogo di prossimità, in cui il sostegno verso il cammino per l’assunzione di responsabilità può essere condiviso con ogni persona detenuta, al di là del reato che ha commesso, con l’annuncio dell’Evangelo di liberazione, come hanno testimoniato le sorelle e i fratelli battisti di Firenze operativi nel carcere di Sollicciano.
Il carcere, luogo di rimozione per eccellenza, subisce spesso il peso della cappa dell’indifferenza: il dolore, le urla, il sangue che innumerevoli atti di autolesionismo testimoniano rimangono confinati al di là dei muri, gli ultimi esistenti, insuperabili e non destinati a un abbattimento liberatorio. L’accento mediatico è posto quasi unicamente sulla tipologia e le modalità del reato commesso, sull’etnia del reo; tanto più il crimine è efferato tanto più appetibile appare ai salotti televisivi in cui a discutere sull’ipotetico nulla, e assurgere a detentori delle verità, ci sono i noti criminologi, preti ed esperti. Dopo la condanna inizia l’esecuzione della pena, inizia il carcere. Che cosa accade alla persona ristretta della sua libertà? Esecuzione della pena. Anni di vita in carcere. «Il carcere malato ha bisogno cioè di un progetto complessivo che faccia i conti con le tendenze, i valori, le paure e le speranze della società» (Franco Corleone).
La lettura disincantata del carcere come esso è ci può far capire, meglio di tanti saggi, le pulsioni che emergono nel corpo della società, la voglia di vendetta, le risposte orientate alla tolleranza zero. L’aumento del numero dei detenuti non risponde a un aumento della criminalità e dei delitti, ma a un atteggiamento che forse inconsapevolmente vuole ridefinire i confini delle due città, quella dei sani da quella dei malati, quella dei giusti e dei normali da quella dei criminali e dei devianti.
Nella meditazione su Marco 5, 21-43, scritta da Antonio, persona detenuta nelle carceri di Parma, sezione As1, in un passaggio si legge: «Non esiste condizione più misera e più vile di chi è colpito e umiliato nella sua umanità. Gli ergastolani ostativi vengono sottoposti a una serie di leggi carcerogene non motivate da alcuna ragione logica se non quella di annichilire la personalità dell’individuo. Ma l’uomo o la donna ergastolani appaiono dotati di una lucida consapevolezza che li spinge a rifiutare le illusioni e le speranze per cercare un conforto alle loro attese». Ed è anche nella conoscenza e nell’ascolto di queste attese temporali di chi ha un «fine pena mai», che può collocarsi la prossimità del ministero pastorale.
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217 Istituti penitenziari
30.000 persone in misure alternative
65.000 detenuti
47.000 posti a disposizione
Dati Ministero della Giustizia
( 8 aprile 2014)
Giuseppe La Pietra
Fonte: http://www.riforma.it/
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