La donna, domestica di 28 anni al secondo mese di gravidanza, ha perso il bambino in seguito al trauma. Attivisti cristiani e musulmani chiedono leggi e tutele per la donna. In Pakistan “vi è una tolleranza diffusa” delle violenze di genere.
Faisalabad (AsiaNews) – Una donna cristiana di 28 anni, incinta, è stata costretta dal proprio datore di lavoro a camminare nuda in pubblico, perché non avrebbe adempiuto al proprio dovere in modo corretto e secondo le aspettative. La vittima – che ha perduto il bambino nella violenza – è una residente della colonia cristiana di Rana Town, nel distretto di Sheikhupura, nella provincia del Punjab (la più popolosa del Pakistan). Essa lavorava come domestica e, secondo quanto riferisce, è stata costretta a camminare priva di vestiti per almeno 30 minuti perché non avrebbe soddisfatto le richieste del proprio datore di lavoro. La vicenda è emersa ieri, in concomitanza con la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Uno dei figli dell’uomo, in compagnia di quattro amici, ha trascinato la 28enne, incinta, all’esterno dell’abitazione e le ha strappato via gli abiti; il gruppo l’ha quindi abbandonata, nuda, all’angolo di una strada, dove una donna anziana le ha dato alcuni vestiti per coprirsi. I parenti l’hanno quindi accompagnata in ospedale, per accertamenti sul suo stato di salute e del nascituro; i medici hanno riscontrato il principio di aborto e non è stato possibile salvare il bambino.
“Ero incinta di due mesi – afferma la donna, già madre di quattro figli – e ho perso il bambino nell’incidente. La polizia si guarda bene dall’arrestare i colpevoli. Se non ottengo giustizia, mi ammazzo”. Il marito spiega che gli inquirenti avrebbero aperto un fascicolo di inchiesta contro Mobin Gondal e i suoi quattro complici, ma non ha applicato la legge contro gli atti di terrorismo come richiesto dalla vittima.
Ieri intanto a Faisalabad si è tenuta una manifestazione per celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, organizzata da Association of Women for Awareness and Motivation (Awam) e dal Pakistan Gender Coalition (Pgc). I partecipanti hanno lanciato un appello al governo, perché approvi una legge contro le violenze domestiche, le conversioni forzate e i crimini perpetrati da – e con l’avallo – della macchina dello Stato.
L’avvocato cristiano Hashmat Barkat sottolinea che “le donne delle minoranze religiose [come conferma la vicenda sopra riportata, ndr] sono obiettivi semplici da colpire”. Nazia Sardar, direttore Awam, punta il dito contro “lo sfruttamento della manodopera” senza diritti, né tutele. L’attivista Naseem Anthony punta il dito contro “i valori conservatori e la società patriarcale”, che sono “alla base delle violenze domestiche”, perché considerate “accettate quali parti integranti della cultura del Pakistan”. Le fa eco l’attivista musulmana per i diritti delle donne Amna Ehsan, secondo cui “vi è una generale tolleranza delle violenze di genere”.
Con più di 180 milioni di abitanti (di cui il 97% professa l’islam), il Pakistan è la sesta nazione più popolosa al mondo ed è il secondo fra i Paesi musulmani dopo l’Indonesia. Circa l’80% è musulmano sunnita, mentre gli sciiti sono il 20% del totale. Vi sono inoltre presenze di indù (1,85%), cristiani (1,6%) e sikh (0,04%). Decine gli episodi di violenze, fra attacchi mirati contro intere comunità (Gojra nel 2009 o alla Joseph Colony di Lahore nel marzo 2013), luoghi di culto (Peshawar nel settembre scorso) o abusi contro singoli individui (Sawan Masih e Asia Bibi, Rimsha Masih o il giovane Robert Fanish Masih, anch’egli morto in cella), spesso perpetrati col pretesto delle leggi sulla blasfemia.
(Ha collaborato Shafique Khokhar)
Tratto da: http://www.asianews.it/
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