I lavoratori stranieri nei Paesi del Golfo Persico sono 18 milioni su una popolazione di 42 milioni di persone. Provengono soprattutto da India, Nepal, Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia, Filippine ed Etiopia. Negli ultimi anni l’Arabia Saudita ha aumentato del 40% il numero di lavoratori domestici stranieri e il Kuwait lo ha visto crescere del 66%. Fino a qui nulla di strano, anzi, nuovi posti di lavoro in “un’oasi” per il momento quasi a prova di recessione economica. In realtà non si tratta veramente e solo di nuovi posti di lavoro. Le recenti attenzioni di giornalisti e ong per il fenomeno mostrano che vi sono almeno 2,4 milioni di lavoratori domestici migranti in condizioni di semi schiavitù in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrain, Oman ed Emirati Arabi Uniti. Il dato a ben vedere non è una totale novità, se non nelle proporzioni. Già nel 1995 Robert Fisk, probabilmente il più famoso corrispondente estero britannico, sull’Independent riportava casi come quello di Felixberta Pasco, cameriera filippina di 32 anni, corsa a chiedere aiuto alla propria ambasciata di Abu Dhabi dopo che il suo datore di lavoro l’aveva picchiata. Non si trattava di un caso isolato e non a tutte è andata “bene” come alla Pasco.
Dalla fine degli anni ’90 Human Rights Watch (Hwr) snocciola report (l’ultimo nel 2014) con le storie e le cifre delle vittime di questa nuova schiavitù, con un occhio di riguardo proprio per le collaboratrici domestiche migranti, che arrivano nei Paesi del Golfo Persico. La maggior parte delle donne è impiegata presso le famiglie locali dove cucina, pulisce la casa e spesso crescere i figli della famiglia presso cui lavora, ricevendo in cambio vitto, alloggio e uno stipendio sufficiente per mantenere una famiglia nel paese d’origine. Spesso però “La realtà è diversa – ha ricordato Hwr in un recente report sull’Arabia Saudita – e si materializza con il sequestro del passaporto all’arrivo, l’impossibilità di cambiare lavoro senza il consenso del datore di lavoro, orari impossibili e nessun riposo settimanale”. È solo l’inizio. In questi casi si parla di Kafala, un sistema di reclutamento e garanzia che assomiglia pericolosamente all’acquisizione di uno schiavo. Di fatto un ufficio di collocamento nel paese d’origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il viaggio del lavoratore immigrato, che da quel momento non può cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto. Nelle case del Golfo, per via della Kafala, si consumano così vessazioni e violenze anche fisiche ai danni di domestiche private della possibilità di abbandonare il lavoro e accusate di “lamentarsi per il troppo lavoro”, oppure di “urlare contro i bambini” o semplicemente di “chiedere più diritti”.
Il caso più recente non ha avuto un lieto fine. Come ha riferito il quotidiano arabo Gulf News una datrice di lavoro di 35 anni degli Emirati Arabi ha torturato per mesi una donna originaria delle Comore, ed è finita alla sbarra con l’accusa di omicidio di primo grado. Al processo iniziato lo scorso 28 febbraio l’accusata si è dichiarata innocente e ha respinto ogni addebito, nonostante le testimonianze dei vicini, che pur non essendo mai intervenuti, hanno dichiarato che “picchiava di continuo” e con “brutalità” la sua domestica. All’interno della casa lavora un’altra domestica 19enne, che ha confermato i maltrattamenti. A quanto pare la vittima subiva da tempo scatti d’ira con calci e pugni ed era stata addirittura picchiata con un bastone di bambù e persino con dei fili elettrici a bassa tensione. Al momento del ricovero in ospedale, il corpo della domestica presentava ferite e bruciature che hanno poi provocato coaguli del sangue ed il fatale edema polmonare del dicembre scorso. Per il percuotere dopo i maltrattamenti l’imputata avrebbe anche negato alla donna le tempestive cure mediche necessarie a salvarle la vita. L’autopsia per ora ha confermato che il decesso è frutto di “torture e percosse che si sono prolungate per settimane e mesi, fino a causare la morte”.
Adesso l’imputata resterà in carcere per tutta la durata del processo, al momento aggiornato con una seconda udienza il 23 marzo prossimo. Questo è solo uno dei casi più eclatanti venuti alla luce, ma in Paesi dove la manodopera straniera si aggira attorno all’88,5% e il razzismo non è certo una novità, abusi, violenze e vessazioni sembrano più una regola che un’eccezione. Quando va bene “le paghe sono da fame, e spesso trattenute dal padrone a tempo indeterminato, proprio nelle nazioni che vantano alcuni tra i Pil più alti del mondo” ha spiegato Hwr. Si va dai 100 ai 400 dollari al mese, e il prezzo varia a seconda del Paese di destinazione e quello di provenienza. Il quadro si complica ancor più per lavoratrici e i lavoratori domestici, che per esempio in Arabia sono esclusi dalle normative previste dal ministero del Lavoro e solo nel giugno 2014 è stata promossa una parziale riforma che concede il giorno libero a settimana e le otto ore di riposo nell’arco delle 24 ore di giornata lavorativa.
Soluzioni? Scappare, sapendo che senza il permesso del “padrone” questa scelta può implicare automaticamente una condanna, in quanto si violano le clausole della Kafala che di fatto stabilisce la “proprietà” del datore di lavoro sull’immigrato. Le cose si complicano poi nei paesi più intransigenti dal punto di vista religioso, come l’Arabia Saudita, dove alle donne è vietato uscire di casa senza un uomo. Una situazione veramente delicata che meriterebbe più attenzione da parte dei media e della politica internazionale, che come mostra in un altro conteso il caso Regeni, è certamente più attenta agli affari che hai diritti umani.
Alessandro Graziadei | Unimondo.org/
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