Intervistato oggi da Giulio Meotti sul Foglio, il filosofo inglese Roger Scruton parla della legge sull’omofobia e, più in generale della neolingua orwelliana che ci vuole tutti d’accordo su tutto, non permettendo il dissenso in nome dell’omologazione. Scruton, il più importante pensatore conservatore vivente, spiega che «la questione omosessuale è complicata e difficile, ma non puoi imprigionare il pensiero con leggi sulla cosiddetta “omofobia” come quella al Parlamento italiano, che altro non è che la criminalizzazione della critica intellettuale sul tema del matrimonio gay. È un nuovo crimine intellettuale, ideologico, come lo fu l’anticomunismo durante la Guerra fredda».
COME LA CINA MAOISTA. «A me questa legge sull’omofobia – dice – ricorda i processi farsa di Mosca, e quelli della Cina maoista, in cui le vittime confessavano entusiaste i propri crimini prima di essere giustiziati. In tutte queste cause in cui gli ottimisti accusano gli oppositori di “odio” e “discorso dell’odio” ci vedo quella che il filosofo Michael Polanyi nel 1963 definì “inversione morale”: se deplori il welfare manchi di “compassione”; se ti opponi alla normalizzazione dell’omosessualità sei un “omofobo”; se credi nella cultura occidentale sei un “elitista”. L’accusa di “omofobia” significa fine della carriera, specie per chi lavora all’università».
“DIRITTI GAY”. La realtà non conta più. Ciò che conta sono le definizioni della neolingua. Un nuovo potere totalitario che impone cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa può essere detto e cosa deve essere taciuto. «Le frasi della neolingua suonano come asserzioni in cui la sola logica sottostante è quella della formula magica: mostrano il trionfo delle parole sulle cose, la futilità dell’argomentazione razionale e il pericolo di resistere all’incantesimo». «Un sistema ragguardevole di etichette semi ufficiali sta emergendo per prevenire l’espressione di punti di vista “pericolosi”. La minaccia si diffonde così rapidamente nella società che non c’è modo di evitarla. Quando le parole diventano fatti, e i pensieri sono giudicati dall’espressione, una sorta di prudenza universale invade la vita intellettuale. La gente modera il linguaggio, sacrifica lo stile per una sintassi più “inclusiva”, evita sesso, razza, genere, religione. Qualsiasi frase o idioma che contenga il giudizio su un’altra categoria o classe di persone può diventare, dal giorno alla notte, l’oggetto di una stigmatizzazione».
Così, «chi si angustia per tutto ciò e vuole esprimere la sua protesta dovrà lottare contro potenti forme di censura. Chi dissente da ciò che sta diventando ortodossia nei “diritti dei gay” è regolarmente accusata di “omofobia”. In America ci sono comitati, preposti alle nomine di candidati, che li esaminano per sospetta “omofobia”, e vengono liquidati una volta che sia stata formulata l’accusa: “Non si può accettare la richiesta di quella donna di fare parte di una giuria in un processo, è una cristiana fondamentalista e omofobica”».
UNA GUERRA FREDDA. Una operazione ideologica non diversa da quelle operate durante la Guerra Fredda, tanto che il pensatore ricorda «quanto si è rivelato facile uccidere milioni di innocenti visto che non stava succedendo niente di grave, era solo la “liquidazione dei kulaki”! Quanto è semplice rinchiudere la gente per anni in campi di lavoro forzato fino a che non si ammala o muore, se la sola definizione linguistica concessa è “rieducazione”. Adesso c’è una nuova bigotteria laica che vuole criminalizzare la libertà d’espressione sul grande tema dell’omosessualità».
CHI SIAMO “NOI”? Il punto è che «non c’è alcuna utilità nelle vecchie idee di oggettività e verità universale, l’unica cosa che conta è che “noi” si sia d’accordo. Ma chi siamo “noi”? E su cosa ci troviamo d’accordo? “Noi” siamo tutti per il femminismo, liberali, sostenitori del movimento di liberazione dei gay e del curriculum aperto; “noi” non crediamo in Dio o in qualunque religione tramandata, e le vecchie idee di autorità, ordine e autodisciplina per noi non contano. “Noi” decidiamo il significato dei testi, creando con le nostre parole il consenso che ci aggrada. Non abbiamo alcun vincolo, a parte la comunità alla quale abbiamo scelto di appartenere, e poiché non c’è verità oggettiva, ma solo un consenso autogenerato, la nostra posizione è inattaccabile da qualsiasi punto di vista al di fuori di essa. Non solo il pragmatista può decidere cosa pensare, ma si può anche proteggere da chiunque non la pensi allo stesso modo».
Qui l’intervista integrale
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