Oceani: salvarli è un imperativo etico e un’opportunità economica

Che gli ecosistemi marini siano sottoposti a forti stress che ne turbano gli equilibri mettendone a rischio la vita, ormai è un fatto tristemente noto. Un esempio? Ogni anno ha ricordato in questi giorni Slow Food “ci ritroviamo a parlare del Fish Dipendence Day, ovvero il giorno in cui si comincia a dipendere dal pesce importato. In Italia il giorno x è stato il 14 aprile (una settimana prima rispetto al 2012), da alcune settimane, quindi, gli stock ittici dei nostri mari sono esauriti. Inutile chiedere al banco pescato nostrano, non ce n’è più”. Anche per questo lo scorso mese sotto la guida di José María Figueres, ex presidente del Costa Rica, si è riunita per la prima volta a Cape Town, in Sudafrica, la neonata Global Ocean Commission un organismo indipendente di studio che nei prossimi mesi dovrà cercare di invertire lo stato di degrado in cui versano gli oceani e fermare la corsa allo sfruttamento indiscriminato delle loro risorse naturali, formulando delle proposte concrete per salvarli da sottoporre all’attenzione dell’Assemblea generale dell’Onu nel 2014. La commissione si occuperà in particolare di quelle acque internazionali, il 45% circa della superficie del pianeta, che non rientrano nella giurisdizione dei Governi, ma sono soggette alla cosiddetta “Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare” nata trent’anni fa allo scopo di definire i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, ma ben poco “attrezzata” per affrontare l’impressionante perdita di biodiversità e contrastare la sovrapesca che sta svuotando gli oceani.

Durante il meeting inaugurale in Sudafrica il Global Ocean Commission ha, così, analizzato gli studi eseguiti dalla Fao, dalla Banca Mondiale e dalla National Geographic Society riguardanti la situazione disastrosa in cui versano gli oceani certificando che l’inquinamento e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse marine ha ormai raggiunto o superato i limiti della sostenibilità. “In questo primo incontro di lavoro abbiamo ascoltato il parere di molti esperti e discusso dei principali problemi degli oceani – ha affermato Trevor Manuel, co-presidente sudafricano della Global Ocean Commission – e nessuno di noi è stupido abbastanza da pensare che sarà semplice delineare un futuro per la salute e la salvaguardia dei nostri oceani. Ma al punto in cui ci troviamo non è azzardato affermare che la situazione può solo migliorare”. “La commissione produrrà solo proposte capaci di tradursi in azioni concrete – ha aggiunto l’ex ministro degli Esteri britannico David Miliband, altro autorevole rappresentante del nuovo organismo – ho fatto parte di numerose commissioni e ho, pertanto, imparato a mie spese che quando i gruppi di studio producono troppe raccomandazioni vuol dire che hanno fallito nel compito per cui erano stati creati”.

L’analisi e le conseguenti proposte degli studiosi uscite da questo primo summit sudafricano si concentreranno su quattro punti chiave: esaminare le minacce, i cambiamenti e le sfide che i nostri mari si trovano ad affrontare, rivedere l’efficacia del piano giuridico nel governare questi cambiamenti e le acque fuori dal controllo dei governi, stabilire relazioni con tutte le parti interessate, compresi i cittadini e individuare riforme fattibili stabilendone i costi pragmatici, politici ed economici. Il primo punto in particolare è funzionale a tutti gli altri: la Commissione per suo stesso mandato dovrà, infatti, “mettere al bando ideologie e interessi di parte, per poi individuare e portare alla luce quali siano le effettive minacce alla salute degli oceani”. Al momento sono già state definite zone morte 400 siti oceanici, che si estendono per una superficie di circa 250mila kmq dove, quasi del tutto, non sussistono più le condizioni di sopravvivenza degli ecosistemi. Un esempio è la cosiddetta “Isola dei rifiuti” meglio conosciuto come il “Pacific Trash Vortex”, una discarica nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico formatasi negli anni grazie alle correnti, la cui estensione non è nota con precisione, ma si stima che le sue dimensioni oscillino tra quelle della penisola Iberica e l’intera superficie degli Stati Uniti. Ma molte altre sono le questioni aperte visto che risultano sovrasfruttate più dell’80% delle risorse ittiche (come ricordavamo già nel 2011 analizzando i mari italiani) portando alla sistematica estinzione di molte specie marine, mentre la selvaggia urbanizzazione costiera ha ridotto del 20% l’estensione delle barriere coralline e del 35% quella delle foreste di mangrovie, fucine di biodiversità. Nonostante questi allarmanti dati oggi solo il due per cento della superficie degli oceani costituisce un area marina protetta, contro il dodici per cento delle corrispondenti regioni terrestri.

Ma oltre ai fondamentali motivi ambientali, la salvaguardia degli oceani e della loro biodiversità ha ricadute economiche e sociali di enorme portata se pensiamo che gli oceani, che ricoprono circa il 70% della superficie terrestre, forniscono il 50% dell’ossigeno, assorbono dall’atmosfera il 25% dell’anidride carbonica proveniente dalle attività umane (5 volte di più rispetto alle foreste tropicali) e contribuiscono in massima parte alla regolazione globale del clima per la loro capacità di assorbire calore. “Noi tutti dipendiamo dagli oceani – ha ricordato a proposito Figueres – e agli oceani sono legate indissolubilmente le vite di miliardi di persone nei Paesi in via di sviluppo che da essi traggono la fonte primaria di proteine, per non parlare poi del numero di Paesi la cui economia si basa sullo stato di salute degli oceani e cioè sul commercio di pesce e sulle centinaia di miglia di posti di lavoro che esso offre”. Il rischio? “Se la pressione dell’uomo sugli oceani continuerà con la pesca illegale o attraverso l’incremento delle emissioni di anidride carbonica che rendono le acque più acide allora ne pagheremo le conseguenze economiche e sociali”, oltre che quelle ambientali e sanitarie. Il ricavato del commercio di pesce per i Paesi in via di sviluppo è pari a circa 25 miliardi di dollari l’anno, due volte quello del caffè. Solo dalla pesca e commercializzazione del tonno derivano, ad esempio, dieci miliardi d’introiti e nove dall’ecoturismo subacqueo. Sono invece 85 le nazioni coinvolte nel commercio internazionale di pesce, stimato complessivamente in 102 miliardi di dollari l’anno con 350 milioni i posti di lavoro legati alla salute degli oceani. Anche per questo l’equilibrio degli ecosistemi marini rappresenta, sia un imperativo etico, che un’opportunità economica: “Si tratta di una questione di cui è assolutamente necessario interessarci, se vogliamo che i nostri figli e i nostri nipoti ottengano da essi gli stessi benefici di cui ha goduto la nostra generazione”, ha concluso Figueres.

Per Slow Food, il nostro legame con le grandi masse d’acqua delle terra è una consapevolezza sempre più diffusa come il desiderio di porre fine allo sfruttamento indiscriminato degli oceani, un tema che l’associazione approfondirà a Slow Fish al Porto Antico di Genova dal 9 al 12 maggio durante gli incontri dei Laboratori dell’acqua “che offriranno momenti di scambio, confronto e discussione tra il pubblico e i maggiori esperti del settore: biologi, ricercatori, giornalisti, cuochi e pescatori”. Perché essere consapevoli non basta più, occorre fare di questa consapevolezza prassi come ha ricordato solo due settimane fa il Commissario europeo all’Ambiente Janez Potočnik aprendo l’International Conference on Prevention and Management of Marine Litter in European Seas di Berlino.

Tratto da Unimondo.org

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