Obiezione, quel che i giudici fingono di non sapere

img-_innerArtFb-_1396344605_466350803Caro direttore, ti scrivo perché davvero sono indignato dalla sentenza N. 08990/2016 con cui un trio di magistrati, dunque impiegati pubblici, in forza presso il TAR del Lazio ha bocciato il ricorso promosso contro la delibera della giunta regionale guidata da Zingaretti che obbliga i medici obiettori di coscienza a rilasciare il documento per abortire, a prescrivere pillole post-coitali e inserire spirali.

Ho letto più volte lo scritto e sono stupefatto per l’approssimazione scientifica che lo sostiene e l’incoerenza logica che lo permea da cima a fondo. La legge 194 stabilisce il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario nei confronti delle “procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”. Qual’è la logica che ha mosso il legislatore e sottintesa nella norma? Non è certamente quella di consentire un ideale ecologista avverso ad interrompere la gravidanza. Qualsiasi medico obiettore che si trovi di fronte ad un caso di eclampsia all’ottavo mese di gravidanza non ha infatti alcuna remora ad indurre il parto, dunque interrompere la gravidanza, e così facendo salvare la vita della madre e del figlio.

È evidente che quando il legislatore parla di interruzione di gravidanza e dell’obiezione di coscienza intende riferirsi a qualcos’altro, cioè all’aborto. “Aborto” è però un termine medico e dunque i giudici dovrebbero imparare da noi medici che cosa esso significhi. Il Merriam-Webster, il più diffuso dizionario medico, ne fornisce questa definizione: “Una procedura medica usata per interrompere la gravidanza e causare la morte del feto“. Altro dizionario medico diffusissimo, il Dorland: “Espulsione prematura dall’utero dei prodotti del concepimento dell’embrione o del feto incapace di sopravvivere“. L’intenzione dell’aborto è dunque quella d’interrompere la gravidanza, ma non per salvare il concepito, bensì per causarne la morte, o comunque avendo preventivato che il bambino non sopravviverà.

Ciò che l’obiettore di coscienza dunque non vuole partecipare a compiere è causare la morte, ovvero uccidere il feto in assenza di pericolo imminente per la vita della madre. Quando i giudici del TAR scrivono che all’obiettore di coscienza è fatto obbligo “di intervenire per prestare necessaria assistenza alla degente nella fase successiva all’aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario (cd. secondamento), e dunque in una fase non diretta a determinare l’interruzione della gravidanza“, viene da domandarsi se questi abbiano la minima cognizione di come nasca un bambino.

Nell’aborto del secondo trimestre attuato con la tecnica del cosiddetto mini-parto infatti, il bambino muore per il traumatismo del parto o per insufficienza respiratoria slatentizzata dal clampaggio del cordone ombelicale appena nato perché non sufficientemente maturo per sopravvivere al di fuori dell’utero materno. Il bambino abortito diventa così una salma situata fuori dal corpo della donna. È dunque ovvio che il medico obiettore di coscienza chiamato ad intervenire nelle manovre di espulsione della placenta non sia in questi casi moralmente coinvolto nell’uccisione di un piccolo essere umano che di fatto è già morto.

Ma ogni pratica che faciliti la morte del feto è evidente una partecipazione attiva all’aborto non meno di come preparare gli attrezzi da scasso, o le armi, o fare il palo è una partecipazione alla rapina, mentre non lo è curare un rapinatore ferito dopo la rapina. Per questo la legge 194, seppure una legge mortifera che legalizza l’induzione della morte del concepito, consente almeno che il personale sanitario possa non solo rifiutarsi di attuare l’aborto, ma anche di non partecipare ad esso, non eseguendo né le procedure preparatorie all’aborto [preparazione infermieristica e diagnostica della donna, anestesia, isterosuzione, o prescrizione e somministrazione di farmaci abortivi], né, come dice la legge, le attività che in modo specifico e diretto determinano l’aborto.

I giudici affermano che il documento per abortire non rientra tra le attività che in modo specifico e diretto determinano l’aborto. Se però la donna si presenta senza il documento in questione, può abortire? La risposta è no, dunque il documento è necessario. Questo documento serve a qualcos’altro? Serve a farsi fare un’ecografia ostetrica, una colposcopia, un pap-test? La risposta è ancora no. Per qualsiasi procedura che non sia l’aborto bisogna esibire l’impegnativa specifica del medico curante perché il documento rilasciato per abortire non è valido per altri accertamenti.

Dunque quel documento è specifico per l’aborto. È quindi chiaro come la luce del sole che la redazione del documento per abortire è coperta dall’articolo 9 della legge 194 in quanto specifico e necessario solo e soltanto all’aborto. Nel documento che il medico rilascia alla donna egli attesta lo stato di gravidanza, l’intenzione della donna di abortire e l’invito a soprassedere per sette giorni. I giudici del TAR hanno così sostenuto alla maniera dei sofisti che l’intervento del medico obiettore non sarebbe “direttamente causativo” dell’aborto e dunque non vi sarebbe alcuna corresponsabilità né coinvolgimento morale. Una tale impostazione svela il distorsivo fisicismo della teoria morale a cui i giudici amministrativi si sono ispirati.

Un esempio può aiutare a comprenderlo meglio. Supponiamo che in un tribunale penale alcuni colleghi dei tre giudici del TAR debbano giudicare il boss don Vito Corleone per concorso nell’omicidio del figlio di Clemenza. L’accusa presenta come prova un pizzino in cui don Corleone ha scritto tre cose: Clemenza ha un figlio, Clemenza odia quel figlio, ma lo si invita a riflettere per una settimana. Nel corso del processo Luca Brasi, killer del figlio di Clemenza, afferma che questi gli presentò il biglietto di don Corleone e dopo averlo letto egli poi eseguì l’omicidio, poiché, spiega, è regola che un tale pizzino autorizzi l’esecuzione. In aula don Corleone si è difeso affermando che nel biglietto egli non aveva scritto niente di “direttamente causativo” dell’omicidio, essendo facoltà di Clemenza “discostarsene” non presentando il biglietto a Luca Brasi; don Corleone aveva semplicemente preso atto della volontà di Clemenza. Luca Brasi spiega tuttavia ai giudici e alla giuria che senza quel biglietto egli non avrebbe mai potuto eseguire l’assassinio.

Sarebbe interessante sapere dai giudici del TAR del Lazio se essi assolverebbero don Vito Corleone oppure lo riterrebbero complice. In questo secondo caso essi dovrebbero riconoscere anche che il medico che stila il documento per abortire è moralmente e legalmente coinvolto nell’aborto e che l’obiettore ha il diritto a non redigere quel tipo di “pizzino”.

I giudici del TAR vogliono forse sostenere che quando nel trattato sulla libertà John Stuart Mills scriveva: «Su se stesso, sulla propria mente e sul proprio corpo l’individuo è sovrano», egli intendesse escludere i medici? Un sanitario che è obbligato ad agire contro coscienza è un professionista reso pericoloso per lo stesso paziente, perché è una persona che ha messo sotto tutela la propria libertà e si è reso schiavo; oggi della donna, domani magari dello Stato o di altri poteri forti. Io spero che questa sentenza sia ribaltata dal Consiglio di Stato. Riflettano bene i giudici, perché a tutti può capitare di diventare pazienti ed in quel giorno nessuno si augura di avere di fronte un medico telecomandato da qualcun altro.

di Renzo Puccetti | Lanuovabq.it

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook