Di critiche all’idea diffusa per cui fede e libero mercato siano inconciliabili ce ne sono tante. L’obiezione più nota è quella per cui la ricchezza, prima di essere ridistribuita ai più sfortunati, deve essere in qualche modo prodotta: senza fare una torta è difficile dividerne le fette. È piuttosto facile obiettare ad Andrea Camilleri (e agli Andrea Camilleri sparsi per il mondo) quando dice: “Può un vero cristiano amare il capitalismo? Perché se è vero che da un lato è stato possibile quantificare le vittime del comunismo, le vittime del capitalismo, invece non vengono quantificate da nessuno”. Non quantificate perché, anche se può non piacere, il capitalismo non ha fatto morti a differenza del comunismo le cui vittime si contano – dicono i dati – quantomeno nell’ordine delle decine di milioni.
Ma è possibile addentrarsi in una difesa del capitalismo da un punto di vista morale se non addirittura etico? c’è un motivo per cui il libero mercato possa essere considerato intrinsecamente migliore dello statalismo? Rispondere in modo positivo a questa domanda è un’avventura in cui pochi scelgono di addentrarsi: si preferisce concentrarsi sui dati economici che, pur precisi, restano nudi, freddi e – di conseguenza – con un minore appeal rispetto all’antifona, scorretta ma diffusissima, del capitalismo (o della globalizzazione) affamatore di popoli.
Ma c’è chi, a difendere il capitalismo da un punto di vista etico e morale, ci riesce benissimo: si chiama Arthur C. Brooks ed è un economista americano, guarda caso poco conosciuto in Italia. Dal 2009 è presidente del prestigioso American Enterprise Institute ed è anche un fervente cristiano. Nel suo ultimo libro La via della libertà(Rubbettino, 2014) spiega come, dal suo punto di vista, la libertà economica debba essere propugnata e difesa: “Le argomentazioni materialistiche a favore della libera iniziativa – scrive nel primo capitolo – sono state provate ripetutamente e non sono riuscite a fermare la tendenza verso il big government. C’è solo un tipo di ragionamento che può scuotere e svegliare le persone: quello di tipo morale”.
In particolare – osserva Brooks – “l’ostinata dipendenza dalle argomentazioni materialiste è un regalo agli statalisti. Permette loro di dipingere i fautori della libera iniziativa come egoisti e motivati solo dal denaro”. Brooks sostiene che non vi sia alcuna prova che il denaro renda, di per sé, le persone più felici. Anzi il denaro in eccesso rispetto alle esigenze di base proprio non aiuta a vivere meglio. A riguardo Brooks cita una ricerca del 1974 condotta dall’economista della University of Pennsylvania Richard Easterlin che dimostra come, di media, i cittadini dei Paesi ricchi non siano più felici di quelli dei Paesi più poveri. Con un’eccezione: i paesi molto poveri – specie dell’Africa sub-sahariana, in cui le persone devono fare i conti ogni giorno con fame e malattie – dove il livello di felicità media (che riprendendo il titolo di un suo libro Brooks chiamerebbe Gross National Happiness) cala sensibilmente.
Ma cos’è, allora, che rende davvero l’uomo felice? Una serie di sondaggi condotti negli anni da Gallup ci aiutano a fare un po’ di chiarezza: i risultati dicono che “gli imprenditori di tutti i tipi valutano il loro benessere in modo più elevato di ogni altro gruppo professionale in America”. E non certo perché sono più ricchi visto che – secondo un’analisi del sito carreerbuilder.com – nel 2011 i proprietari di Pmi (che in America subiscono una pressione fiscale alta, pari al 35% del fatturato) guadagnavano di media il 19% meno dei dirigenti pubblici, di cui neppure si considerano i benefit. Come mai accade ciò? La risposta – sottolinea Brooks – è molto semplice: nel mio libro – scrive – “offrirò la prova che il denaro in sé porta poca gioia alla vita, ma che la libera iniziativa porta quello che tutte le persone desiderano profondamente: il successo conquistato”.
Per Brooks la parola chiave è responsabilità individuale. È lei che ti spinge non solo ad essere più felice (uno studio del 2001 della Ohio State University rivela che le persone che non si ritengono responsabili del proprio successo provano tristezza per un tempo 25% superiore a chi si giudica responsabile) ma anche a comportarti in maniera altruista: secondo i risultati di un sondaggio del National Opinion Research Center le persone che concordano con l’affermazione secondo cui “il governo ha il compito di ridurre la disuguaglianza di reddito” donano di meno di chi non lo pensa. Addirittura la differenza media in termini di donazioni reali fra chi è molto d’accordo con l’affermazione e chi è molto in disaccordo varia da meno di 200 a oltre 1.400 dollari l’anno.
Insomma chi è più favorevole alla libera iniziativa è anche più generoso. A ben vedere non è una contraddizione: solo chi ha un forte senso di responsabilità verso se stesso può provare lo stesso sentimento nei confronti delle persone che incontra sul proprio cammino. Se così stanno le cose lo Stato allora va forse rifiutato in toto? Brooks non la pensa così: un governo serve a garantire servizi essenziali indispensabili quali difesa, polizia, giustizia e – semmai – per aiutare le persone che, con grosse disabilità fisiche o psichiche, non possono cavarsela da sole. Tutte le altre andrebbero, semmai, solo incentivate a migliorarsi.
Brooks ne è l’esempio vivente: dopo aver studiato e praticato il corno francese fino all’età di trent’anni, pur lavorando per mantenere una famiglia ha deciso di iscriversi alla facoltà di economia con l’obiettivo di diventare divulgatore e saggista. Inutile sottolineare come ci sia riuscito in pieno. Qualcuno obietterà che in Italia ciò non sarebbe stato possibile ma proprio per questo motivo la teoria di Brooks – “lasciatemi definire il mio successo e conquistarlo a modo mio e prospererò. Toglietemi la capacità o l’incentivo per conquistare il mio successo e sarò infelice” – meriterebbe di essere conosciuta più a fondo anche da noi. In fondo non è la mentalità più diffusa a modellare una società? (…)
di Matteo Borghi
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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