No ai centri della vergogna

03-Foto_02«Foglio di via» alla violazione dei diritti umani.
Le associazioni di solidarietà con gli immigrati chiedono la chiusura dei Cie, centri di detenzione amministrativa dove i diritti umani sono sospesi. Urge una riforma profonda delle politiche migratorie
Franca Di Lecce*

Ci siamo congedati dal 2013 con le immagini dei Centri di Lampedusa e di Ponte Galeria alle porte di Roma. Un Centro di Soccorso e prima Accoglienza il primo, un Centro di identificazione ed espulsione il secondo. Centri di natura giuridica diversa, ma la differenza è poco rilevante nella realtà. Le immagini delle bocche cucite da un filo, che sembrano soltanto un gesto estremo di autolesionismo ma sono una denuncia urlata della oppressione e soppressione della persona, e le immagini umilianti di uomini in fila nudi per la disinfezione con benzoato di benzina si intrecciano con quella fotografia delle centinaia di bare nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa, scattata dopo la strage del 3 ottobre. Immagini crudeli e agghiaccianti che non vogliamo archiviare in attesa delle prossime, magari ancora più forti e più agghiaccianti, in una sorta di tragica neutralizzazione che ha bisogno di intensificare ogni volta di più la sofferenza mostrata.

Queste immagini, che hanno indignato la comunità internazionale e messo in difficoltà leader politici e religiosi, hanno mostrato quello che sapevamo da anni e cioè che in quei centri i migranti che vi sono rinchiusi subiscono violenze e torture, vengono maltrattati, espropriati della loro umanità. Quello che si è voluto e cercato di nascondere è semplicemente uscito prepotentemente e imprevedibilmente allo scoperto e ha fatto il giro del mondo. La realtà dei centri è disumana: vi sono detenute persone che non hanno commesso alcun reato, persone private della loro libertà magari dopo aver perso prima il lavoro e dopo il permesso di soggiorno, grazie a quell’abbraccio mortale previsto dalla nostra legislazione che lega il permesso di soggiorno a un contratto di lavoro.

La detenzione amministrativa dei migranti rappresenta un vulnus nel nostro sistema giuridico e rimane una ferita aperta nelle politiche migratorie degli ultimi quindici anni a partire dalla sua introduzione nel 1998 con la legge Turco-Napolitano.

Che i centri nel corso degli anni si siano dimostrati inefficaci e fallimentari e siano peggiorati fino al punto di diventare centri di tortura è sotto gli occhi di tutti. Vere e proprie carceri parallele, ma con meno garanzie del sistema penitenziario, i Centri di identificazione ed espulsione – come emerge ormai da anni da numerosi rapporti di organismi internazionali e dalle testimonianze – sono luoghi di sospensione del diritto, luoghi inaccessibili e lontani, teatro di gravi e ripetute violazioni di diritti umani, a partire da quello fondamentale della limitazione della libertà personale garantito dall’art. 13 della Costituzione Italiana.

La sospensione del diritto all’interno dei Cie diventa allo stesso tempo una drammatica sospensione del tempo che tocca profondamente la dimensione esistenziale delle persone rinchiuse. Bloccati, paralizzati, sradicati e senza contatti con il mondo esterno, i migranti rinchiusi spesso ricorrono a atti di autolesionismo, che sono anche un modo tragico per riprendere il contatto con se stessi. L’isolamento estremo e il senso di impotenza che ne deriva, l’impossibilità di sapere che cosa sarà della loro vita, del tempo che dovranno trascorrere e spesso delle motivazioni stesse per cui sono state rinchiuse, hanno conseguenze simili a quelle che subiscono le persone torturate.

Non sapere perché si è rinchiusi fa diventare matti, come dice anche Alì, giovane tunisino che ha trascorso 18 lunghi mesi nel Cie di Bari: «Ridevano sempre, anche mentre mi picchiavano, senza motivo. Non so come ho fatto a non diventare pazzo. Alcuni sì, lo sono diventati. Grazie a Dio io sono rimasto vivo».

Alì è rimasto vivo ed è andato a vivere a Parigi, senza diventare pazzo. Per uscire dal circuito della crudeltà e del sadismo collettivo il Servizio rifugiati e migranti porta avanti dal 2011 la campagna «LasciateCIEntrare» – di cui fa parte la Federazione delle chiese evangeliche in Italia – nata nel maggio 2011 in seguito a una circolare del ministero dell’Interno che vietava ai giornalisti e a gran parte delle associazioni l’ingresso nei centri. La Campagna, che dopo pochi mesi ottenne un primo importante risultato e cioè la sospensione della circolare, in questi anni di attività è entrata nei centri, spesso con difficoltà e restrizioni, ha ascoltato le testimonianze e ha detto forte chiaro «Mai più Cie – foglio di via alla violazione dei diritti umani». Questo è, infatti, il titolo del documento elaborato dalla Campagna e consegnato ad esponenti del Governo e a tutti i parlamentari per chiedere la chiusura dei centri.

Lo scorso 27 dicembre la Campagna ha lanciato un appello per i profughi rinchiusi nel Centro di Lampedusa e ha presentato un esposto in sede europea per denunciare la paradossale situazione di 17 cittadini eritrei e siriani, sopravvissuti ai tragici naufragi dello scorso ottobre, detenuti illegittimamente in condizioni disumane e degradanti nel centro di Lampedusa.

La detenzione amministrativa è dunque questione centrale nelle politiche migratorie e il sistema dei Cie si è rivelato fallimentare anche dal punto di vista economico perché la gestione dei centri è inefficace e molto dispendiosa. In tempi di crisi economica che, oltre al drammatico impatto sulla vita delle persone, è diventata anche il nuovo slogan per legittimare politiche di esclusione e di falsa solidarietà verso gli autoctoni, è importante dare uno sguardo a quel miliardo di euro, proveniente dalle casse italiane, e che dal 2005 al 2012 è stato usato per costruire, allestire, mantenere e ristrutturare centri per immigrati. In media, una cifra pari a 143 milioni l’anno che non riguarda certamente solo i Cie (per i quali si stima una spesa di almeno 55 milioni l’anno) ma l’intero sistema dei centri destinati a migranti e rifugiati in Italia.

In questo anno appena cominciato insieme alle immagini crudeli che abbiamo visto, vogliamo portare con noi l’augurio che questi luoghi di tortura vengano aboliti e si arrivi al più presto a una riforma profonda e radicale delle politiche migratorie e sociali in Italia e in Europa.

* direttore del Servizio rifugiati e migranti – Fcei

Fonte: http://www.riforma.it/

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