Nessuna persona è irrecuperabile

prison-58320_1280Al contrario, spesso il condannato, anche dopo l’espiazione della pena, cessa di essere persona e viene identificato con il reato commesso.

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»: sono le parole con le quali il terzo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione indica la strada maestra per affermare due valori primari: la dignità e il riscatto. In riferimento alla detenzione, non troviamo traccia della parola punizione. Il carcere, quindi, non è un luogo in cui vengono punite le persone. Chi viene condannato ad una pena detentiva deve essere messo nelle condizioni di vivere umanamente la sua pena. Principi ribaditi in convegni, conferenze, nei luoghi di formazione e nelle scuole, dove soprattutto con gli studenti diventa fondamentale scendere nelle profondità di ciò che significa «rieducazione di un condannato», ribadendo la finalità rieducativa della pena. Questo è possibile nella misura in cui si abbia la concezione della persona umana secondo la quale nessuno sia considerato irrecuperabile. Nessuno.

Un’affermazione che potrebbe sembrare forte, scomoda, ogni qual volta i media danno in pasto all’opinione pubblica la fase della graduale restituzione alla libertà di un cosiddetto «detenuto eccellente», ossia, di chi ha commesso un reato tale da avere un violento risalto mediatico. Il condannato, anche dopo l’espiazione della pena, molto spesso cessa di essere persona, perché viene identificato con il reato commesso, e con tutto ciò che ne consegue. Per quanto sia difficoltoso, perché non c’è la garanzia individuale di riuscita per tutti, è questo un punto fondamentale sul quale dovrebbe fondarsi qualsiasi lavoro, azione di volontariato, cura pastorale intra muraria e nelle fasi di reinserimento socio lavorativo; e sul quale dovrebbe fondarsi il dibattito dell’opinione pubblica nei talk televisivi – piuttosto sbilanciati ad analizzare le modalità con cui vengono commessi i delitti – che diventano distaccamenti virtuali delle aule giudiziarie pieni di opinionisti, qualche volta «tuttologi del fai da te».

La legge pretende che le persone escano libere dal carcere, anche dal pregiudizio. La Costituzione lo pretende. Sul punto si è pronunciata anche la Corte di Cassazione che, con sentenza 475 del 2015, ha evidenziato la forza diffamatoria connaturata all’appellativo di «pregiudicato» – pur usato attestando il vero – ed ha richiamato «l’esigenza, sancita dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, di evitare che il cittadino che si trovi nella condizione personale e sociale di persona processata e/o condannata divenga, in maniera indenne, perenne bersaglio del discredito dei consociati». Nessuno escluso.

Ecco perché continua a destare amarezza la modalità con cui è stata trattata la vicenda del prof. Giovanni Scattone, ex «detenuto – purtroppo per lui – mediatico». Non intendiamo alimentare polemiche e discussioni rispetto alla sua personale vicenda giudiziaria. Con lui potremmo fare anche l’esempio di Adriano Sofri, altro ex «detenuto mediatico», che ha rinunciato ad un incarico conferitogli dal Ministro Orlando in vista degli Stati generali dell’esecuzione penale, non come consulente ma come semplice persona che avrebbe dato un valido contributo al dibattito tematico, data la sua lunga permanenza in carcere. Ricorderanno i nostri lettori il clamore che fece la notizia, al punto che Sofri declinò l’invito. Così come il prof. Scattone, che insegnava già come precario da qualche anno, immesso al ruolo ha rinunciato alla cattedra. E l’elenco potrebbe continuare. Quanto periodicamente si ripete deve farci seriamente riflettere.

Lavoriamo con il personale del carcere sui progetti per le persone detenute ammesse alle misure alternative, un’altra forma di esecuzione penale, perché anch’esse comportano una espiazione della pena, che può avvenire in carcere o fuori, in tutti i casi in cui la legge lo prevede. Dovremmo dire che – fortuna loro – non appartengono alla categoria dei «detenuti mediatici». Eppure, diversi di loro partecipano a dibattiti, insegnano ai ragazzi che realizzano gli stage presso le nostre cooperative sociali, entrano nelle scuole e nelle case di molte famiglie, perché svolgono servizi di manutenzione, raccolgono la differenziata per conto di Enti, sia pubblici che privati. E quanta fatica. Ma tutto questo non fa notizia, forse nel periodo di Natale…

Quanto sia scomodo il passaggio dal tempo in cui hanno scontato la loro pena alla graduale libertà non interessa, non viene approfondito. Si tratta di un tempo lungo, di carcere in carcere, durante il quale la condizione della persona detenuta resta sospesa, ristretta della libertà individuale, ed ha come effetto collaterale la lacerazione delle relazioni familiari; un tempo che sembra essere circolare, imprigionato anch’esso in quella eterna routine dei colloqui, dell’attesa dinanzi al magazzino per il ritiro del pacco di vestiario o degli alimenti, dei colloqui con l’avvocato e i familiari, dei dieci minuti a settimana per telefonare. E per chi può, quando è possibile, qualche attività trattamentale, compreso il lavoro (quando c’è) e lo studio, che spesso diventa un riferimento importante anche per riscoprire le proprie risorse, spesso sopite. E le «domandine»: un genere letterario, una retorica carceraria, una modalità di comunicazione interna che indica un regressione verbale allo stato infantile. Poi, i giorni assumono il profumo di una libertà che disorienta, mette a disagio, in cui la persona necessita di un tempo e spesso di un sostegno (anche collettivo) per tornare ad avere un ruolo, sia all’interno della sua famiglia, quando questo è possibile, sia nella società. I reati vengono lentamente lasciati alle spalle, così come le vicende giudiziarie, che restano scolpite nel vissuto di chi ha visto consumarsi la propria vita.

Il Ministro Orlando, intervenendo alla tavola rotonda del seminario «Il carcere dei diritti, verso gli Stati Generali» ha affermato: «Spendiamo tre miliardi di euro l’anno per l’esecuzione delle pene e abbiamo i tassi di recidiva più alti d’Europa. Perché la paura ha generato paura, ha innescato una spirale che non si interrompe mai». Chi è stato in carcere per pochi o molti anni, nessuno escluso, ha il diritto all’oblio, a una speranza di ricostruzione e di restituzione alla società. Libero.

In assenza di una prospettiva vitale, la pena, qualunque pena, perde il suo senso, amputa la sua essenza, non ha ragione di esistere. E il nostro orizzonte culturale avrà spazio solo ed unicamente per la paura.

Foto via Pixabay

Giuseppe La Pietra | Riforma.it

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