Il mese di agosto ha visto crescere nuovamente la tensione nella piccola regione del Nagorno-Karabakh, contesa tra Armenia e Azerbaijan e di fatto in guerra sin dal 1992. Esattamente come nel 2014, anche quest’anno gli scontri lungo il confine orientale hanno portato nuove vittime e nuova paura, e circa dieci persone hanno perso la vita.
È una guerra che affonda le sue radici in un passato lontano ma sempre attuale: quando l’Unione Sovietica venne creata, infatti, si rese necessario definire delle nazioni in aree storicamente contese come il Caucaso del sud. Per la regione del Nagorno-Karabakh, la scelta di Stalin cadde sull’Azerbaijan, nonostante gli armeni costituissero novanta per cento della popolazione. «Questo – racconta Simone Zoppellaro, corrispondente dall’Armenia per l’Osservatorio Balcani e Caucaso – è accaduto perché l’Unione sovietica aveva buoni rapporti con la Turchia, e sperava attraverso l’Azerbaijan di creare un ponte con il mondo musulmano e di esportare la rivoluzione». Come in quasi tutte le aree dell’irrequieto Caucaso, durante l’epoca sovietica le tensioni rimasero sepolte sotto l’efficace politica di controllo del governo centrale insieme con le specifiche identità etniche e religiose, ma con la fine dell’Urss la guerra non si è fatta attendere. Tra il 1992 e il 1994 nella regione si sono scritte pagine drammatiche, con 30.000 morti e oltre un milione di sfollati e profughi da una parte e dall’altra, e da allora non si è mai giunti a un accordo di pace, ma soltanto al congelamento del conflitto.
Questo disastro umanitario ha cambiato anche la demografia e ha trasformato una regione che era ad ampia maggioranza armena in una etnicamente uniforme: con il censimento del 2005, l’ultimo del quale si hanno dati, nel Nagorno-Karabakh rimanevano soltanto 6 persone di etnia azera. Una sempre maggiore separazione e il progressivo allontanamento nel tempo da quell’eredità sovietica spesso mal sopportata in questa parte del mondo ha contribuito alla riscoperta dell’identità religiosa armena in un paese che ha una storia di cristianesimo di importanza cruciale. Gli armeni furono la prima nazione cristiana: all’inizio del quarto secolo quello che allora era l’Impero armeno si convertì al cristianesimo, e gli armeni hanno mantenuto anche nella diaspora una comunità molto legata alla loro appartenenza alla chiesa. «Hanno pagato cara questa identità molto forte negli anni – racconta Zoppellaro –, come altre minoranze nel corso del Novecento inaugurando col loro genocidio una stagione proseguita in Europa fino al genocidio dell’ex Jugoslavia».
La riscoperta è passata anche dalla necessità di creare nuovi spazi fisici per il culto: per esempio a Stepanakert, che si può considerare la capitale della regione, nessuna chiesa è sopravvissuta alla dominazione sovietica. «Nei primi anni dopo l’indipendenza e durante la guerra – prosegue Simone Zoppellaro, che ha recentemente compiuto un viaggio proprio nel Nagorno-Karabakh – i culti venivano celebrati in un teatro, che era così pieno che spesso il sacerdote doveva raccomandare ai fedeli di lasciare i bambini a casa». Una ricerca di una tradizione, ma anche e soprattutto di una normalità, che prosegue ancora oggi. «C’è una grande voglia di pace – racconta ancora Zoppellaro – , non ho visto o percepito un odio né dal un punto di vista religioso né dal punto di vista etnico nei confronti degli azeri, questo anche e soprattutto prendendo parte a commemorazioni e a celebrazioni in chiesa per i tre soldati armeni morti in questi giorni. La società civile, appoggiata dalle autorità religiose, ha una grande voglia di pace e soprattutto di normalità, di diventare un posto come un altro, di dimenticare questa guerra che riguarda e ha riguardato tutti. Conoscendo le persone, infatti, tutti hanno in famiglia delle vittime».
La popolazione vuole voltare pagina: cosa farà la comunità internazionale, finora colpevolmente ai margini, per permetterlo? La risposta potrebbe passare dalle relazioni tra Russia e Iran, due tra i paesi più importanti della regione insieme alla Turchia, ma soprattutto dovrà passare da una rinnovata volontà di chiudere anni di guerra. La capacità delle chiese caucasiche di porsi in dialogo, un fatto che finora non è mai riuscito fino in fondo, potrebbe rappresentare una strada capace di far tacere, finalmente, le armi.
Foto “Agdam-nagorno-karabakh-1“. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikipedia.
Marco Magnano | Riforma.it/it/
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