Paolo Naso, coordinatore della commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia parla di: “Righe che lasciato interdetti” . Mercoledì scorso “La Repubblica” ha pubblicato un articolo di Eugenio Scalfari dal titolo “Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco”, e che in un passaggio parlava di “sette luterane”. Paolo Naso, politologo e coordinatore della Commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) esprime sorpresa e stupore, con un articolo che verrà pubblicato sul prossimo numero del bollettino settimanale NEV-notizie evangeliche.La storia e la teologia estiva di Scalfari di Paolo Naso
Dispiace e preoccupa che uno dei quotidiani più autorevoli e noti all’estero qual è La Repubblica, e per di più a firma del suo fondatore nonché decano dei giornalisti italiani, concluda un articolo dedicato a papa Bergoglio e alle novità di cui si fa portatore con poche righe che lasciano interdetti.
Nel corpo dell’articolo, Scalfari afferma che “non c’è mai stato un papa che abbia inalberato il vessillo della povertà, non c’è mai stato un papa che non abbia gestito il potere, che non abbia difeso, rafforzato, amato il potere “, per concludere che un papa che predica la Chiesa povera è “un miracolo che fa bene al mondo”. E pertanto – questa la profezia di Scalfari – “non ci sarà un Francesco II”.
In effetti i primi mesi di Bergoglio in Vaticano hanno destato più di qualche sorpresa e non stupisce che molti non credenti come Scalfari mostrino interesse, curiosità e persino ammirazione per un papa che insiste nel definirsi “vescovo di Roma”, che abita in una foresteria, che sa rinunciare al giudizio – “se uno è gay e cerca il Signore, chi sono io per giudicarlo? – che sa pregare con un pastore pentecostale sia in Brasile che in Vaticano, dove questa essenziale pratica ecumenica sembra essere assai più difficile e problematica.
Quello che non capiamo è perché un non credente debba preoccuparsi che “una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere” diventi “irrilevante”, come – è sempre lo Scalfari pensiero – è “accaduto con Lutero” e le “sette luterane” che “continuano a moltiplicarsi”. Il rispetto che si deve a un’icona del giornalismo non può impedirci di dire che si tratta di affermazioni incoerenti, prive di un minimo di fondamento e segnate da un linguaggio grossolano e del tutto improprio per una testata come La Repubblica. “Sette luterane” è espressione impronunciabile, figlia di una cultura controriformista, preconciliare e del tutto estranea alla sociologia religiosa di oggi.
E poi, come si tiene il giudizio sulla irrilevanza del luteranesimo che avrebbe bandito il potere – giudizio azzardato e supponente che non regge alla più superficiale lettura dei testi del padre della Riforma – col fatto che le “sette luterane sono migliaia e continuano a moltiplicarsi”? Il problema è logico, non teologico, ed è sconcertante che un raffinato intellettuale si abbandoni a affermazioni così grossier che si possono – a fatica – concedere sotto l’ombrellone ma che suonano intollerabili sulle colonne di un giornale che tanto peso ha nella costruzione dell’opinione pubblica italiana e di quella “laica” in particolare.
Un incidente di percorso? Una frase dal sen fuggita? Una “provocazione culturale”, come si ama dire oggi? Niente di tutto questo, a nostro modesto avviso. Quella di Scalfari è affermazione che esprime perfettamente l’habitus intellettuale di gran parte della cultura “laica” italiana: una cultura che, proprio perché non conosce Lutero e tanto meno Calvino – se non per la mediazione che ne ha fatto la polemica cattolica anti protestante preconciliare – identifica la Chiesa cattolica con il cristianesimo, confonde il potere ecclesiastico con la missione evangelica, ignora che la laicità è compatibile con la fede e aborrisce una pratica cristiana costruita sulla responsabilità individuale del credente piuttosto che sul principio di autorità.
La discussione non è accademica né ideologica: non comprendere il ruolo della Riforma nella modernità significa non comprendere fino in fondo il portato della modernità, il nuovo orizzonte di libertà che essa ha aperto a chi crede, a chi non crede, a chi crede in termini non convenzionali. La debolezza radicale della cultura laica italiana è in questa aporia cognitiva che ha poche eccezioni. Lo stato dell’etica e della res publica italica dicono chiaramente quali ne siano gli effetti.
(fonte NEV)
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