Forse settecento morti, forse ottocento, forse novecento e più.
È questa la terribile contabilità delle persone annegate nel peschereccio che s’è rovesciato domenica nel Mare Mediterraneo (sempre più “Mare Morto”, come intitolavano oggi alcuni quotidiani). Una fine, la loro, tanto più amara perché la morte se le è prese proprio quando pensavano di essere ormai in salvo, dato che una vera nave s’era accostata alla “carretta” che le trasportava – e sembra che sia stato proprio il loro accalcarsi dalla parte dove c’era la nave soccorritrice ad aver provocato il rovesciamento della vecchia carcassa in cui erano ammassate e chiuse nelle stive come gli schiavi nei velieri dei negrieri.
Tutti parlano oggi di “immane tragedia”, e certo purtroppo è così. Vorrei però si adottasse un linguaggio meno enfatico, e più lucido, più responsabile. Perché ho la brutta impressione che il ricorso a questi termini così forti e le espressioni anch’esse forti di cordoglio e indignazione, diventino poi una sorta di alibi morale che ci rende più facile elaborare e dimenticare tutto in pochi giorni. Non s’era forse parlato di “immane tragedia” anche per gli altri trecentosessanta annegati di qualche tempo fa vicino a Lampedusa? E tranne ricordarceli adesso per dirci che «questa tragedia è addirittura peggiore di quella», chi di noi li ha ricordati lungo tutto questo tempo? E cosa abbiamo fatto nel frattempo per cambiare veramente le cose? Per cambiarle nel mare e per cambiarle nei paesi da cui cercano scampo?
L’Africa “nera” da cui venivano quasi tutti gli annegati di oggi è per noi, per le istituzioni, per i poteri politico-economici del nostro paese e dell’Unione Europea, veramente un “buco nero”. Non ne sappiamo niente e non ci importa di sapere niente delle guerre, delle violenze, dei veri e propri genocidi, dello spietato sfruttamento delle materie prime (pensiamo solo al Congo, che a causa delle materie prime – fra cui il coltan che serve per i nostri cellulari – di cui ha la sventura di essere ricchissimo è vittima di una serie di guerre di cui pochi parlano, ma che hanno provocato negli ultimi 20 anni otto milioni di morti e milioni di profughi).
Dopo la vergogna del colonialismo, noi europei abbiamo pensato bene di rifarci una verginità, non occupandoci più (beninteso, tranne che per motivi legati alla nostra sicurezza militare e al nostro arricchimento) dei paesi dell’Africa, abbandonandoli in mano ai dittatori e ai corruttori, e ci rendiamo conto che ci sono soltanto per gridare all’invasione o per piangere lacrime di coccodrillo quando migliaia di persone disperate si avventurano in mare pagando gli scafisti che li trattano come bestie e correndo ogni momento il rischio di morire, perché nonostante tutto continuano a sperare in una vita dignitosa.
Ma poi c’è anche fra noi chi, a spargere lacrime (sia pure “di coccodrillo”) per queste morti, non ci pensa nemmeno lontanamente. Davanti a un’ecatombe come questa, emergono quelli che potremmo chiamare “gli effetti collaterali”: la miseria umana delle speculazioni dei politici su questa ennesima ecatombe, perché, per qualche voto in più, tutto è permesso, soprattutto quando i morti sono “di quarta serie”; certi commenti apparsi in queste ore sui social media (Facebook, Twitter, account di militanti di alcune parti politiche); i titoli di alcuni giornali, sempre pronti a sfruttare ogni minima occasione e a manipolare anche le tragedie per spargere il loro letame… È l’altra tragedia della morte della dignità e del rispetto umano, e delle regole minime della convivenza civile.
Certi comportamenti sono francamente inaccettabili. Il dolore, il lutto, il senso di impotenza per quello che è accaduto dovrebbero spingerci al silenzio, e subito dopo all’azione per porre fine a quest’infinita orribile catena di corpi divorati dalle acque del mare dei nostri bagni estivi; e invece quelle speculazioni, quei commenti, quei titoli sanciscono l’imbarbarimento della nostra società. In alcuni momenti viene da sognare di vivere in un paese normale, in cui i politici che speculano sui morti siano espulsi per sempre dalla politica; in cui quegli individui che hanno gioito (!) per la morte di centinaia di esseri umani, siano denunciati. E ci sia un giudice che li condanni, e nessun appello dimezzi la condanna e nessun calendario ne faciliti la prescrizione. Ma poi ti svegli e ti ricordi di vivere in Italia, provincia del sud dell’Europa.
Ma noi siamo cristiani, e non ci è consentita la sola indignazione, seppure sacrosanta, né il semplice sconforto.
Cosa possiamo fare? Cosa possono fare le nostre piccole chiese?
Non possiamo far molto, tranne forse far sentire la nostra voce alle più grandi chiese sorelle soprattutto dell’Europa, ché facciano pressione sui potenti perché finalmente si occupino di quel continente così vicino a noi ed insieme però così lontano, e intervengano per cambiare veramente le cose… perché non si limitino a spendere le “cifre ridicole” (come le ha definite il presidente del Parlamento europeo) che si stanziano oggi per l’Operazione Triton (a trovare nomi classici siamo sempre molto bravi), ma mettano a disposizione dell’“emergenza profughi” e degli interventi umanitari e di sviluppo nei paesi da cui i profughi provengono, cifre e mezzi almeno in parte paragonabili a quelli che sono stati investiti in armamenti e truppe nel corso dei vari interventi militari che, come quelli coloniali del passato, sembra abbiano provocato solo guai.
Ancora, possiamo e dobbiamo impegnarci a dare il nostro contributo perché in chi non è ancora totalmente imbarbarito si formi la consapevolezza che, parlando a un livello puramente umano, alla fine, tutti e tutte (per rimanere nell’immagine che oggi ci colpisce in maniera così forte) siamo su quella barca che è la nostra povera terra, che corre veramente il rischio di capovolgersi anch’essa, se continuiamo a dividerci in base al luogo di nascita, alla lingua, alla cultura, al colore delle pelle, alla condizione economica, e dimentichiamo di essere una sola umanità. Insomma – dico una banalità, ma a volte servono anche le banalità – la globalizzazione non deve più valere solo per i soldi e per le merci, ma per tutte le persone.
Naturalmente, come credenti, dobbiamo anche ricordare e testimoniare a noi stessi e a chi incontriamo, che Dio «ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra», e che, proprio per questo, «in lui tutti viviamo, ci muoviamo e siamo» (Atti 17, 26. 28). È la fondamentale realtà della fraternità, dell’amore che viene a noi dal Padre e ci lega l’uno all’altro… sono le sconvolgenti parole di Gesù nella sua parabola del giudizio finale, che valgono per le persone, per i popoli, per i sistemi economici: «Ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui straniero e non mi accoglieste; nudo e non mi vestiste; malato o in prigione, e non mi visitaste… In verità vi dico che in quanto non lo avete fatto a uno di questi minimi, non l’avete fatto neppure a me» (Matteo 25, 42 s. 45). Sì, non soltanto il Signore è dalla parte dei “minimi”, ma viene a noi nei “minimi”.
Infine, sorelle e fratelli, dobbiamo pregare. Per questo nostro mondo così misero; per gli ultimi che soffrono, perché non perdano la speranza; per il nostro occidente così ricco che la speranza l’ha perduta già, soffocata dal suo stesso benessere, e che per questo è così impaurito, cinico, spietato.
Ho letto proprio oggi, in Resistenza e resa questo pensiero di Dietrich Bonhoeffer, che può darci una luce nei nostri abissi di disperazione: «Impariamo a discernere, in quello che gli uomini ci infliggono (e che spesso ci infliggiamo da soli), una mano più forte e più clemente».
Ruggero Marchetti
Fonte: http://riforma.it/
Foto di Carlo Alfredo Clerici via Flickr | Licenza CC BY 2.0
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