«Visitai Alfie: il problema è la “morte cerebrale”» – di Benedetta Frigiero
Da dove nasce l’approccio medico svelato al mondo in maniera palese dal piccolo Alfie Evans?
La risposta per il dottor Paul Byrne, neonatologo di fama internazionale, che nel dicembre del 2017 visitò il piccolo, è chiara: «Anche se Alfie non fu dichiarato cerebralmente morto, tutto nasce dalla definizione di “morte cerebrale”. Una visione per cui la vita è misurata sulla quantità di funzioni dell’encefalo».
Da dove nasce l’approccio medico svelato al mondo in maniera palese dal piccolo Alfie Evans? La risposta per il dottor Paul Byrne, neonatologo di fama internazionale, che nel dicembre del 2017 chiamato dalla famiglia del bambino volò a Liverpool per visitarlo, è chiara da anni: «Tutto nasce dalla definizione di morte, non più clinica ma cerebrale, sancita nel 1968 da una commissione medica di Harvard».
Dottor Byrne, ci spieghi perché lei differenzia la morte reale dalla morte cerebrale e quali implicazioni ha questa distinzione? Ho avviato una terapia intensiva per bambini malati nel 1963 presso il Cardinal Glendon Hospital for Childrend di St. Louis, ero profondamente animato dall’intenzione di sostenere la vita in ogni modo possibile.
Durante questo periodo, sono state scoperte nuove terapie. Ma pochi anni dopo cominciò a diffondersi una nuova definizione di morte: il paziente non era più considerato morto solo dopo la cessazione delle funzioni cardiache e circolatorie, quindi anche respiratorie e del sistema nervoso, ma bastava rilevare l’assenza di attività dell’encefalo per dichiararlo morto.
Nel 1975 nel mio reparto fu ricoverato un bimbo nato prematuro, Joseph. Venne ventilato e poi dichiarato cerebralmente morto perché il suo elettroencefalogramma non dava segni di attività. Ma Joseph era vivo, quindi continuai a curarlo: oggi è padre di tre figli. Da quel momento ho cominciato a interrogarmi sulla definizione di morte cerebrale, scoprendo che era una bugia.
Cosa c’entra tutto questo con Alfie che non era stato dichiarato “cerebralmente morto”? Questa visione ha un impatto enorme sui pazienti come Alfie. Se concepiamo le persone morte, e quindi non più degne di cure, quando il loro cervello non dà segnali di attività, si arriva a pensare che la persona con attività cerebrali minime abbia minore dignità.
Se la misura della vita è il cervello allora diventa normale pensare che siccome parte del cervello di Alfie non appariva normale (aveva anche le convulsioni), allora il bambino era quasi morto e quindi non degno di cure.
Non a caso, anche se Alfie era vivo, invece che ricevere la tracheostomia e le cure, hanno deciso, come se fosse normale, di farlo morire. Quando poi lo hanno visto respirare per quattro giorni anche senza la ventilazione, i medici, pur sorpresi, sapevano che avrebbe faticato a riprendersi senza cure adeguate.
Come si sarebbe comportato come medico di fronte ad Alfie? Tutti i medici sanno che dopo due o tre settimane di ventilazione, e certamente dopo un anno e mezzo come per Alfie, è necessario praticare la tracheostomia. Non sappiamo se poi Alfie avrebbe respirato più a lungo con la tracheostomia. L’unico modo per saperlo era curarlo.
I genitori di Alfie hanno combattuto contro questa visione riduttiva e falsa e hanno svelato a molti la verità che il mondo, immerso nella cultura della morte, non vede più. O meglio la vedono le persone normali che non sono state ancora indottrinate, come la gente che ha protestato a Liverpool.
Come le sono apparsi Alfie e la sua famiglia? Siamo immersi nella cultura della morte e Alfie è stato chiamato a farcelo capire grazie ai suoi genitori che si sono posti contro un sistema medico e giuridico gigantesco, non diverso da quello canadese e americano.
La morte cerebrale è un’imitazione della morte, non è morte reale. Ma è utile al mercato degli organi, che spinge a guardare le persone il cui sistema circolatorio è attivo come non persone e il loro corpo come un insieme di pezzi da ricambio.
In poche parole sta dicendo che la cultura della morte nasce dalla donazione di organi di persone vive. Non è possibile espiantare gli organi da un cadavere. Per farlo c’è bisogno di una persona viva, che però bisogna chiamare morta per giustificare questa prassi.
In questo modo si comincia a pensare che la vita c’è ed ed degna solo se una persona ha le funzioni cerebrali almeno minimamente attive, altrimenti perde di dignità. Questa visione è parziale ed elimina la concezione di anima.
Dottore, qual è invece la sua concezione? La vita di ogni persona è un continuum dal concepimento alla morte reale (mors vera), che ha dignità anche se la condizione in cui si trova non ci piace. Si deve continuare a curare ogni persona finché le sue funzioni respiratorie, cerebrali e circolatorie non sono tutte cessate.
Pensa che sia una coincidenza che la definizione di “morte cerebrale” e il primo trapianto si siano verificati uno in fila all’altro nel 1967-68? I ricercatori si erano accorti dell’impossibilità di praticare espianti di organi da cadaveri. L’unico modo per riciclarli era quello di prenderli da persone vive. Così oggi è pieno di gente giudicata morta de medici o giudici, che invece è viva.
Ho visitato in Canada Taquisha Mckitty, viva nel suo letto ma dichiarata cerebralmente morta il 24 settembre 2017: la Corte Suprema deciderà a breve se è viva o morta e quindi se ha i requisiti per essere curata. Andai in California a visitare Jahi McMath dichiarata cerebralmente morta nel 2013. Jahi fu poi trasferita in New Jersey, grazie alla battaglia legale della famiglia, dove ha ricevuto la tracheostomia e la peg. Jahi oggi vive.
La cronaca riporta diversi casi di gente dichiarata morta cerebralmente che poi si è risvegliata. Ogni volta i medici sostengono che ciò sia avvenuto per via di un errore nella diagnostica di accertamento della morte cerebrale che deve confermare l’assenza di respiro, di funzioni cerebrali (compreso il tronco encefalico) e di percezione del dolore. Quando accade dicono che c’è stato un errore nella diagnostica, ma il vero problema è nella loro concezione di vita e di morte.
Per negare questa evidenza c’è persino chi, magari anche ateo, grida al miracolo. I miracoli possono accadere, ma sono tali perché contraddicono le leggi naturali. In questi casi non c’è contraddizione. La verità è che tutti questi pazienti dichiarati morti non lo erano.
Il loro cuore non era fermo e la loro circolazione non era cessata da ore. Non erano corpi in decomposizione. Di miracoloso c’è quindi che nessuno ha toccato gli organi di quelle persone prima che si risvegliassero.
In Gran Bretagna, e ora anche in Italia, la legge dice che si può chiedere di non essere “resuscitati” o “rianimati”, che significa? I medici non hanno il potere di resuscitare nessuno, anche se si parla di “resurrezione” o “rianimazione”: o sei vivo e quindi ti curo o sei un cadavere e nessuno può prendersi più cura di te. Se sei un cadavere ti può resuscitare solo Dio.
Se in questo momento si trovasse davanti ad un paziente incapace di respirare da solo, di reagire agli stimoli o di provare dolore e le cui funzioni cerebrali apparissero del tutto nulle, cosa farebbe? Non lo dichiarerei mai morto. Incoraggio sempre ad esaminare la tiroide del paziente, se poi la tiroide non funziona bisogna somministrare le cure per la tiroide, che così può magari aiutare il cervello a guarire o portare all’alimentazione e la respirazione autonome.
Ci sono molte cose da fare per aiutare una persona a vivere finché non muore veramente. Recentemente un ragazzino di 9 anni, dichiarato cerebralmente morto, è stato curato e ora sta bene.
Perché se l’esperienza nega la definizione di morte cerebrale è così difficile tornare indietro? Solo nel 2017 in America il mercato degli organi ha fatturato 34 bilioni dollari. È un mercato globale, presente anche in Italia.
[…] Perciò il punto starebbe in una diagnosi certa, dove la respirazione e l’encefalo, compreso il tronco, siano completamente inattivi.
Il punto è che sono stati adottati tanti criteri diversi di “morte cerebrale”. Nessuno di questi però è fondato su evidenze: quando qualcuno viene dichiarato cerebralmente morto e poi si risveglia certi diranno che non sono stati rispettati i criteri esatti o che ci sono stati errori diagnostici.
Ma quello che sappiamo è che questi pazienti si sono risvegliati perché i parenti si sono opposti ad una definizione che giudica morto chi ha il cuore che batte.
Fonte: LaNuovaBussolaQuotidiana
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