Un reportage del New York Times svela la tragedia di un’epidemia che si diffonde sempre di più. Medici senza frontiere: «Muoiono tra le 10 e le 15 persone al giorno ma siamo pieni lo stesso».
Morire di Ebola alle porte dell’ospedale. Si intitola così un drammatico reportage realizzato dal New York Times a Monrovia, capitale della Liberia, uno dei paesi africani più colpiti dall’epidemia senza precedenti. Il virus ha già ucciso più di 2300 persone, su un numero di infetti superiore alle quattromila unità, e secondo uno studio realizzato da un gruppo di scienziati di Oxford, Ebola potrebbe presto raggiungere 15 paesi in Africa mettendo a rischio la vita di 70 milioni di persone.
«STO MORENDO». Fuori dall’ospedale Jfk, a Monrovia, un giovane ragazzo di vent’anni si dimena sul pavimento di terra tra baracche di lamiera gridando: «Sto morendo». Il padre, Lasana Stewoh, gli sta a fianco aspettando che l’ospedale apra la porta: «Non fa altro che vomitare e andare di corpo. Non può mangiare». Il Jfk è il più grande complesso di cura del paese ma come tanti altri non ha più neanche un letto libero.
MEDICI IMPOTENTI. «Dovunque andiamo ci dicono la stessa cosa: non c’è posto, dovete aspettare», continua il padre del ragazzo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità le misure convenzionali «non stanno avendo un impatto adeguato» e nelle prossime settimane si verificheranno migliaia di nuovi casi.
«Mi spezza il cuore a vedere» della gente che muore alle porte dell’ospedale, «ma non possiamo fare niente», dichiara Stefan Liljegren, che coordina a Monrovia l’ospedale da campo di Medici senza frontiere. «Non abbiamo spazio, non abbiamo i mezzi».
«NON C’È POSTO». «Guardatevi intorno: qui abbiamo 350 posti letto», continua Liljegren. «Non era mai accaduto prima che dovessimo rifiutare i malati. Non è un’esperienza facile ma noi siamo pieni tutti i giorni e non riusciamo a costruire altre stanze in tempo». Questo, nonostante nel campo medico muoiano «tra le 10 e le 15 persone al giorno».
LA RABBIA. Alle porte dell’ospedale Jfk un gruppo di uomini si uniscono a Lasana Stewoh per protestare. Alla fine un medico esce con la consueta tuta per non essere infettato e dichiara: «Non abbiamo posto». La gente si arrabbia: «Non sono anche loro liberiani?». Ma la risposta è sempre la stessa: «Non abbiamo più posto». Il padre del ragazzo malato di Ebola è arrabbiato: «Ti dicono in continuazione: appena scopri un caso, riportalo prima che puoi. Io lo faccio, mai poi non succede niente. Mi dicono solo: “Aspetta, aspetta, aspetta”. E io aspetto: non so cosa altro fare».
Leone Grotti
Fonte: http://www.tempi.it/
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