«Mio figlio mi ha salvato la vita, è il solo motivo che mi ha spinta a chiedere aiuto e a iniziare un percorso di disintossicazione». Comincia così la storia di Sara (nome di fantasia) che ha scelto di rendere pubblica la sua esperienza di tossicodipendenza iniziata all’età di 14 anni, con lo speed e la chetamina: «All’inizio gli stupefacenti mi servivano per divertimento, quando andavo a ballare». Poi è subentrata la dipendenza e la scoperta del Bosco di Rogoredo, alla periferia di Milano, un vero e proprio supermercato dell’eroina, aperto h 24 e 7 giorni su 7. «Le cose sono cambiate quando mia madre si è ammalata di tumore. Stavo male a vederla in quelle condizioni. Conobbi persone che frequentavano il Bosco e che si facevano di cocaina ed eroina, così sono entrata nel giro per allontanarmi da quello che avevo in casa, per placare quei sentimenti negativi che provavo per via della salute di mia madre. Mi aiutava a non pensare».
Un incidente con il motorino le cambiò la vita, in meglio: «Nel 2019 con il mio compagno siamo finiti in ospedale. Dalle analisi di routine è emerso che ero al quarto mese di gravidanza. Ero contenta e preoccupata insieme. Cosa potevo offrire a questo bambino? Non avevo una casa, un lavoro, ero sola. I rapporti con mio papà si erano interrotti quando avevo 17 anni. In un’altra situazione avrei gioito, ma ero consapevole che la vita che facevo non andava bene per un bambino». Fu allora che lei e il compagno chiesero aiuto a Claudia e Annabella, due volontarie del Team Rogoredo del CISOM, da anni attivo nel recupero dei ragazzi che frequentano e vivono il boschetto.
«Si rivolsero a noi spiegando che Sara era incinta e che volevano disintossicarsi, perché intenzionati a tenere il bambino. Si erano resi conto del pericolo che correvano», racconta Claudia, volontaria dal 2015 del Cisom. E così, dopo circa un mese, i due giovani entrarono al Sollievo, struttura nata all’interno dello Smi, il Servizio Multidisciplinare Integrato, accreditato con la Regione Lombardia che si occupa di prevenzione, trattamento e riabilitazione di persone con problematiche di abuso e dipendenza. «Dapprima non ero convinta, pensavo agli assistenti sociali, al Tribunale dei Minori, temevo che, una volta nato, mi avrebbero tolto il bambino. Non mi preoccupavo della disintossicazione, su quella ero convinta», racconta Sara ripensando a quei giorni in cui le tentazioni di cadere nuovamente nella droga erano forti. «È stata una gravidanza tosta, le nausee mi hanno accompagnata per tutti i nove mesi, avevo sbalzi di umore dovuti in parte agli ormoni ma anche perché avevo interrotto tutti i farmaci, ad esclusione del metadone che ho diminuito di settimana in settimana, lentamente, per non far nascere il bambino in crisi di astinenza. Una settimana dopo il parto avevo smesso anche quello».
«Alla vista di mio figlio per la prima volta ho provato una sensazione difficile da descrivere. Meraviglioso, era la luce guardarlo negli occhi».
Sara e le due volontarie Cisom, Claudia e Annabella, non si sono perse di vista: «Sono molto legata a loro, è come se avessi avuto due mamme, hanno riempito quel vuoto lasciato dalla mia. Sentivo che mi volevano bene. Ci siamo sempre sentite e scritte, nei limiti del possibile perché il regolamento della comunità, nei primi mesi di percorso, prevede una chiamata a settimana con i famigliari».
Claudia, invece, dice che il merito per avercela fatta è tutto di Sara, loro si sono limitate a darle le informazioni, a metterle a disposizione i mezzi, «ma l’impresa l’ha compiuta lei. Ha tirato fuori tutta la sua forza e tenacia e non ha mai mollato, anche se mi ha raccontato che le capitava di sognare il Bosco».
Oggi è una donna felice, una bellissima ragazza, con un sorriso meraviglioso.
Oggi Sara ha 23 anni e se le chiediamo di suo figlio, risponde: «Al mio bambino auguro il meglio, tutto l’amore del mondo, cercherò di dargli quello che io non ho mai avuto o che ho avuto fino a un certo punto della mia vita. Voglio che cresca e che stia bene, che possa studiare, non voglio che passi ciò che ho vissuto io. Ora che anche io sono un genitore, rivedendo come mi sono comportata con mio padre, le tante bugie che ho raccontato, non voglio che possa accadere la stessa cosa. Per questo voglio essere sincera con lui, anche sul mio passato, sicuramente qualcosa gli racconterò. Quando sarà più grande e ci sarà il momento giusto, gliene parlerò».
Entro l’anno madre e figlio usciranno definitivamente dalla comunità. «Sono alla fine del percorso. Chi l’avrebbe mai detto che sarei riuscita ad arrivare fino a questo punto. Mi sarei data meno di zero quando ho cominciato, ma se hai forza di volontà e un motivo valido, ci riesci». Sara ha iniziato a lavorare come operaia. Sara non è l’unica donna incinta che Claudia ha incontrato a Rogoredo durante il servizio di volontariato con il Cisom. E purtroppo tante ragazze non ce la fanno a uscire dal tunnel e fanno nascere i loro bambini tra le siringhe e li abbandonano: il fatto di avere una vita dentro che cresce è percepito come l’unica cosa positiva di loro stesse. Non gli interessa del bambino in sé ma del loro corpo che in quel momento sta facendo qualcosa di buono, è come se si illudessero di far sbocciare un fiore su un terreno arido.
E poi ci sono le mamme dei giovani tossicodipendenti del Bosco. Mamme con cui Claudia è in contatto. Alcune vanno a Rogoredo e stanno lì per ore nella vana speranza di incontrare il figlio solo per dargli un cambio d’abiti o qualcos’altro.
Dal 2019 a oggi i volontari Cisom sono riusciti a portare via dal Bosco di Rogoredo centinaia di persone e ad accompagnarle in strutture di assistenza e recupero. Ogni mercoledì sera alla stazione distribuiscono cibo, vestiti puliti, coperte, prodotti per l’igiene personale e, cosa non meno importante, calore umano. Ogni quindici giorni l’Ambulatorio Medico Mobile del Gruppo di Milano offre cure sanitarie.
«Conosciamo dei ragazzi che mangiano una sola volta a settimana, quando arriviamo noi. Da una parte dobbiamo attirarli a noi con cibo e indumenti, per poi poterli agganciare, ma dall’altra parte dobbiamo stare attenti a non dare troppo per evitare che stiano “troppo bene” nel Bosco, che abbiano meno voglia di cambiare vita. Vorremmo dare tutto, ma non possiamo dare troppo» conclude Claudia.
Articolo a firma di Marilena Ottavi, già pubblicato sulla Rivista Notizie Pro Vita & Famiglia n. 109 di luglio-agosto 2022
https://www.provitaefamiglia.it/blog/mio-figlio-mi-ha-salvato-la-vita
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