Il Ministro della Salute cinese ha reso noto il numero di aborti praticati in 42 anni di regime: 336 milioni. Si tratta di cinque volte e mezza la popolazione italiana. Nel 1971 la Cina ha avviato una politica demografica tesa al controllo delle nascite. Nei primi anni tale politica si declinava come mero indottrinamento anti-natalista, ma poi nel 1978 la Cina, non paga dei risultati ottenuti, varò la politica del figlio unico.Questo provvedimento è odiatissimo dai cinesi dal momento che, seppur preveda alcune eccezioni (due figli sono permessi alle coppie di figli unici, a quelle che vivono in campagna con una sola figlia, a chi ha un figlio handicappato), costringe le donne ad abortire se aspettano un secondo figlio o a pagare multe salate. Dal 1980 ad oggi lo Stato ha incassato 380 milioni di dollari per le multe comminate a chi aveva messo al mondo più di un bambino.
La decrescita demografica è stata imposta anche a colpi di interventi coattivi di sterilizzazioni di massa, sia maschili che femminili. Ben 196 milioni gli interventi di questo tipo negli ultimi 40 anni. Senza poi contare i 403 milioni di interventi per inserire dispositivi contraccettivi e abortivi intrauterini. Questi ultimi sono i cosiddetti cripto-aborti, cioè aborti che sfuggono al computo ufficiale e che bisogna aggiungere ai 336 milioni di aborti a cui si accennava sopra.
Quindi come media dal 1971 ad oggi in Cina si praticano all’anno circa 8 milioni di aborti (più di 15 al minuto), più di 4 milioni e mezzo di interventi di sterilizzazione e più di 9 milioni e mezzo di interventi per inserire dispositivi contraccettivi e abortivi.
L’aborto in Cina poi è aborto selettivo. La politica del figlio unico colpisce soprattutto le femmine sia per questioni culturali: “è come innaffiare il giardino di un altro” recita un detto popolare cinese. Sia perché nelle zone rurali dovendo scegliere preferiscono le braccia forti dei figli maschi. I maschi sono “merce” così preziosa che sono oggetto di commercio: fino a 7.600 euro si è disposti a pagare per un bambino di sesso maschile. Il risultato di questo squilibrio è evidente: nel 2010 su 118 maschi c’erano solo 110 ragazze. A livello nazionale ciò significa che ci sono 37 milioni di maschi in più rispetto alle donne. Tra pochi anni un quinto degli uomini avrà difficoltà a trovare una donna cinese per sposarsi.
Gli economisti non hanno dubbi: se la Cina non inverte al più presto il trend di decrescita non potrà più sostenere il suo sviluppo economico. Nel 2000 gli ultrasessantenni erano il 10,3%, oggi il 13,3%. Di converso i ragazzi sotto i 14 anni sono scesi dal 23 al 17%. E’ la famigerata piramide rovesciata dove i pochi giovani devono mantenere i molti anziani non produttivi. Oggi i cinesi lavoratori sono il 69,2% dell’intera popolazione e sono scesi dello 0,6% rispetto all’anno precedente. Ma Jiantang, direttore dell’Ufficio nazionale di statistica di Pechino lancia l’allarme: «È la prima volta da molto tempo a questa parte che assistiamo a un calo così drastico della popolazione in età lavorativa. La popolazione in età da lavoro continuerà a diminuire gradualmente, almeno fino al 2030. La Cina deve studiare una politica appropriata per la pianificazione familiare».
Tale monito non pare essere condiviso da tutti i membri del governo. Al termine dell’ultimo Congresso del Partito, a fine 2012, indiscrezioni lasciavano intendere un cambio di rotta repentino, ma così non è avvenuto. Hu Jintao, ultimo presidente della Cina, nel suo piano quinquennale aveva deciso di desistere dalla politica del figlio unico gradualmente provincia per provincia, per giungere al 2015 all’abrogazione totale. L’attuale presidente, Xi Jinping, potrebbe archiviare questa pratica anche prima. Infatti la Commissione per la pianificazione familiare, organo incaricato di stabilire le quote di nascite permesse, è stata fusa con il Ministero della Salute, un espediente per dare meno potere alla Commissione stessa. Alcuni osservatori leggono questa decisione come un passo verso la progressiva cancellazione della politica del figlio unico.
Ovviamente il ripensamento in atto, posto che davvero esista, non è stato determinato da motivi umanitari, etici, bensì da mero calcolo utilitaristico. Una coscienza quella dei politici cinesi impossibile da scuotere tramite il richiamo ai principi non negoziabili, ma assai sensibile al vil denaro e agli interessi nazionali.
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