E’ come una sorta di sfiducia che nasce da coscienze cristiane diseducate (quindi permeabili alla mentalità moderna antropocentrica) a non permettere al cristianesimo di diffondersi in Occidente come nei primi secoli. Al contrario avviene nei paesi dove i cristiani sono poveri e perseguitati e in cui è più facile ricordarsi che l’uomo è una fragile creatura in tutto bisognosa di Dio.
Basti pensare a quello che ha recentemente raccontato la ventinovenne sudanese Mariam Ibrahim, accusata di apostasia e condannata a morte dal tribunale del suo paese nel maggio del 2014. Dopo una grande mobilitazione internazionale la donna, madre di due figli e sposata con Daniel Wani, un cristiano e cittadino americano, fu scarcerata e rifugiata negli Stati Uniti, in Virginia, dove oggi risiede con la sua famiglia. Mariam ha recentemente raccontato al Christian Post della conversione al cristianesimo della sua compagna di cella musulmana.
Con il marito invalido sulla sedia a rotelle, la sudanese, in prigione con il figlio di 20 mesi, fu costretta a partorire la sua secondogenita in catene. E, nonostante questo, si era rifiutata di abiurare in cambio della libertà. Ma non è che la cristiana non avesse paura, anzi ha descritto al giornale americano le notti insonni a vegliare sul figlio temendo che gli accadesse qualcosa. Eppure, preoccupata come è normale che sia, nonostante il pericolo di essere scoperta cercava “a volte il tempo di notte, quando le guardie non erano nei paraggi, di prendere la mia Bibbia e di leggerla”. Come se il rischio di essere scoperta fosse minore di quello di rimanere in carcere senza il conforto di Dio. Pur sapendo che la situazione sarebbe potuta peggiorare, Mariam, si era fatta portate la Bibbia da una guardia pagandola. Sebbene l’unico modo di riuscire a non farsi scoprire con il libro sacro durante il giorno “era nasconderla tramite qualcun altro”. Anche perché molti dei prigionieri musulmani, ritenendola un’infedele, volevano ucciderla.
Solo una donna, una carcerata etiope di fede musulmana, arrestata per essersi recata illegalmente in Sudan, davanti al dramma di Mariam si era spesso offerta di aiutarla con il figlio, “perché se dovevo andare in bagno non potevo lasciarlo da solo. Altre volte dovevo pagare affinché qualcuno vegliasse su di lui”. E’ a lei che si era rivolta la cristiana per chiederle di nascondere la Bibbia: “Lei si intristiva vedendo che gli altri mi maltrattavano”, ha sottolineato Mariam ricordando le domande della sua compagna di cella su come potesse essere così in pace leggendo quelle pagine. “Questa è la Bibbia – le spiegai – e la ragione per cui sono in prigione è perché credo in questo libro”.
Oltre al rischio di leggere la Bibbia, la musulmana aveva assistito ai ricatti fatti a Mariam per abiurare, sopratutto quando era in procinto di partorire: «Mi dissero: “Se vuoi uscire e andare all’ospedale basta che dici la Shahada (cioè testimoni la fede in Allah)”, ma non volevo dirlo. Non avrei mentito», anche perché «i miei figli non avrebbero mai rispettato la loro madre se avessi fatto una cosa del genere». La figlia nacque e Mariam riuscì persino a benedire le persone che l’avevano aiutata a partorire. La cristiana fu poi liberata mentre la sua compagna di cella, «quando i suoi giorni in carcere finirono, dovette pagare per uscire e mi chiese aiuto». Solo più tardi Meriam scoprì che la donna si era convertita.
E’ così che una giovane mamma cristiana, in condizioni di fragilità estrema ha testimoniato la grandezza di Dio. Infatti, non è che la sudanese non soffrisse o che non temesse per i propri figli e marito e non è che riuscisse a dormire come se niente fosse. Perché il cristianesimo non coincide con l’atarassia e non rende immuni da paure, angosce e dolori, quelli che persino Cristo e la Madonna hanno patito. La storia raccontata da Mariam, infatti, dimostra che il cristiano è colui che sa di poter consistere solo in Cristo, motivo per cui lei stessa ha avuto bisogno della Bibbia per resistere in cella. In Occidente, invece, dove l’appartenenza a Dio è spesso ridotto a una bravura e bontà personali, in cui l’azione di Dio c’entra ben poco, il cristianesimo non riesce a diffondersi. Anche perché nel caso di una riuscita umana il credente razionalista se ne attribuisce il merito, mentre quando fallisce pensa di non poter essere veicolo di nulla, figurarsi di Dio.
La vicenda sudanese invece dimostra che la testimonianza non è il frutto di un progetto o di una “bravura” e “capacità” umane (come appunto certa “diseducazione” cristiana permeata di moralismo orgoglioso e moderno insegna), ma dell’azione di un Dio a cui ci si affida proprio perché coscienti della propria miseria e incapacità a salvarsi e a salvare il mondo con le proprie forze. “Come fai a essere in pace leggendo la Bibbia?”, chiese la musulmana alla cristiana. Come ha domandare: “Che cosa ti rende cosi?”.
di Benedetta Frigerio | Lanuovabq.it
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