Nonostante i ripetuti attacchi del regime alla regione di Deir ez-Zor, l’AANES chiede a Damasco di ripristinare il dialogo per una soluzione politica che garantisca sia l’unità della Siria che l’autonomia per i territori del nord e dell’est.
Proseguono ormai da parecchi giorni gli attacchi da parte di Damasco, con il sostegno di organizzazioni fiancheggiatrici filo-iraniane (v. Difa al-Watni, Difesa della patria, a quanto pare apprezzata anche da Ankara) irrobustite con miliziani pachistani e afgani, nella regione di Deir Ez-Zor. Area a maggioranza araba, in gran parte desertica ma petrolifera (in cui si mantiene la presenza di circa 900 militari statunitensi) sotto il controllo delle forze arabo-curde.
Come da manuale il maggior numero di vittime si contano tra la popolazione civile. Tra gli ultimi incidenti, il bombardamento delle città di Abu Hemam (una vittima accertata: Resmiya Salih al-Id di 40 anni), Kishkiye e della zona rurale di Bisêra. Si calcola che in una settimana (dal 7 agosto) negli attacchi contro Deir Ez-Zor siano morte almeno una quindicina di persone (una trentina i feriti accertati).
Scontata la ferma condanna per tali operazioni (e della propaganda di guerra con cui si vorrebbe attribuire alle FDS – Forze Democratiche Siriane – la responsabilità del conflitto) da parte dell’Amministrazione autonoma democratica del nord e dell’est della Siria (AANES) che tuttavia non rinuncia alla possibilità di un confronto con il regime. Invitandolo a “mettere da parte la demagogia e la retorica ostile per impegnarsi in un sincero dialogo nazionale per il futuro della Siria”.
Accusati di “collaborare con gli Stati Uniti”, i curdi a loro volta accusano il regime di “utilizzare un linguaggio di odio e tradimento”. Inoltre con il suo operato Damasco “impedisce di occuparsi seriamente della questione autonomia o separatismo”. E’ noto che ai curdi viene rinfacciato di voler frantumare la Siria mentre in realtà si tratterebbe soltanto di riconoscere l’autonomia (fondata sul Confederalismo democratico) dei territori già amministrati dall’AANES.
Concetto ribadito ancora una volta dal PYD (Partito dell’unione democratica) che ha rilanciato la proposta di un “dialogo nazionale” e la necessità impellente di negoziati. In quanto “la soluzione del conflitto in corso sta nelle mani dei Siriani e non nei forum internazionali come Astana o Ginevra”.
Per cui il governo siriano dovrebbe “abbandonare le soluzioni militari e concentrarsi sul dialogo politico per garantire l’unità e l’integrità della Siria”.
Un approccio alla questione che non è esclusivo dei Curdi. In questi giorni si è tenuta a Hesekê una riunione tra i leader tribali (sia arabi che curdi) che si sono trovati concordi sia nel condannare gli attacchi di Damasco a Deir ez-Zor, sia nel sostegno alle FDS. Nella dichiarazione finale, comunicata dallo sceicco Hesen Ferhan (co-presidente del Consiglio della Tribù Tey), si leggeva che “noi come tribù appoggiamo le FDS e le Forze Asayish di Ordine Pubblico con i nostri uomini, donne e giovani. E garantiremo la sicurezza del nostro paese con ogni mezzo necessario”.
Con una richiamo alla “nostra esperienza che è l’arma più potente contro i tentativi di spezzarne l’unità”. Protezione e sicurezza del paese che rappresentano un “sacro dovere per ogni membro delle nostre tribù e clan del nord e dell’est della Siria”. Con l’appello finale a “tutti i popoli della regione affinché sostengano le FDS e le Forze Asayish anteponendo l’interesse del paese a ogni altra questione”.
Stando almeno a tale comunicato sembrerebbero rientrate le rivendicazioni di alcune tribù arabe (in particolare della tribù Akaiadat) favorevoli al ripristino della sovranità diretta di Damasco (per i curdi tali tribù sarebbero state sobillate dal regime). L’anno scorso una rivolta araba nella regione di Deir ez-Zor era scoppiata in contemporaneità (difficile pensare a una coincidenza, piuttosto a un coordinamento) con gli attacchi delle formazioni jihadiste filoturche a Manbij e Tell Tamer.
Quel che verrebbe umilmente da suggerire al presidente Bashar al-Assad è di preoccuparsi non tanto per le richieste di autonomia avanzate dai curdi, ma piuttosto dei territori persi nel nord-ovest (con i villaggi di al-Bab, Azaz, Jarabulus, Rajo, Tal Abyad, Ras al-Ayn…).
Territori occupati militarmente da Ankara in almeno tre fasi: agosto 2016 con l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, gennaio 2018 (“Ramo d’ulivo”) e ottobre 2019 (“Primavera di pace”). Definitivamente entrati a far parte della cosiddetta “fascia di sicurezza” sotto controllo turco. Di fatto una provincia turca che dipende dal Governatorato di Gaziantep. Per non parlare della questione del Golan sempre sotto occupazione israeliana.
Gianni Sartori
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