Gli effetti dello “slash and burn” sono devastanti sulle foreste vergini e sull’ecosistema del pianeta, anche se, purtroppo, rappresentano una delle tecniche più diffuse in quei Paesi tropicali che vivono di agricolture di sussistenza e che si basano su metodi tradizionali, e ancor più vengono praticati con l’aumento graduale e costante della densità della popolazione.
Madagascar: la quarta isola al mondo per grandezza, accoccolata tra l’equatore e il Tropico del Capricorno, con le curve dolci dei suoi altipiani e i grandi baobab, più di 10.000 varietà di piante e fiori di cui gran parte endemiche, foreste pluviali, 51 specie di lemuri, uno dei Paesi con il più ricco patrimonio ecologico… Per quanto ancora?
Perché il Madagascar di cui vi parlo oggi rischia di allontanarsi sempre più dalla realtà paradisiaca descritta a turisti inconsapevoli sulla maggior parte dei siti che propongono viaggi indimenticabili. E basterebbe solo aprire gli occhi per vedere cose, quelle sì, sono impossibili da dimenticare.
A cominciare dalla deforestazione, che in Madagascar è una ferita aperta che porta con sé desertificazione, consumo delle risorse idriche e impoverimento del suolo, effetti collaterali che hanno conseguenze sul 94% delle terre prima fertili e ricche di coltivazioni biologiche. Inquietante pensare che, da quando l’isola ha ospitato i suoi primi abitanti più di 2000 anni fa, ha perso più del 90% delle sue foreste, e di queste più del 70% è stato distrutto tra il 1885 e il 1925, mentre il Madagascar era sotto il dominio francese: in questi anni una delle cause principali della deforestazione è stata proprio l’introduzione di coltivazioni di caffè (decisamente remunerative…). Scelte e comportamenti che, nei decenni, hanno sottoposto il Paese a gravi difficoltà per fornire risorse alimentari adeguate, acqua potabile e servizi sanitari alla propria popolazione, che cresce a rapido ritmo.
Certo però è che non sono solo le colture introdotte a causare problemi di tale portata, bensì parte della responsabilità è da imputare anche alle tecniche utilizzate, in particolare la tavy, una pratica tipica delle foreste pluviali tropicali e di agricolture di sussistenza, probabilmente importata dai primi migranti che, dalla Polinesia, andarono a stabilirsi sulle coste del Madagascar. In origine la tecnica, conosciuta anche come slash and burn, prevedeva il taglio e la bruciatura di tutti gli alberi presenti su una porzione di terreno, sul quale veniva poi coltivato il riso, che cresceva grazie alle sole piogge. Il terreno, dopo la raccolta del riso, rimaneva a riposo anche per 20 anni e, una volta che la foresta fosse ricresciuta, i tronchi e le foglie potevano essere di nuovo bruciati, rilasciando nel suolo una moltitudine di agenti nutrienti. Una tecnica teoricamente perfetta se i terreni fossero piccoli e i contadini lasciassero trascorrere tra un incendio e il successivo il tempo necessario perché l’ecosistema si rigeneri. Ma con la maggior diffusione dell’agricoltura vengono meno i tempi di riposo necessari per i terreni e quindi sempre più foreste vengono bruciate per far posto a nuove coltivazioni. Se quindi i coltivatori tornano troppo presto a sfruttare il suolo, questo diventa sempre più povero e se sempre più lotti vengono bruciati non rimangono più alberi che possano permettere la diffusione di semi e ricreare la foresta. Se la gestione delle terre è prevalentemente questa, si assiste a un’erosione su vasta scala che non trova più le radici come naturale strumento di contenimento e quindi anche i nutrimenti residui scivolano via. Inizia la desertificazione, che diventa ancora più drammatica se si considera che regioni come il Madagascar rappresentano l’habitat naturale di moltissime e diverse specie e l’isola in particolare costituisce uno dei luoghi essenziali per preservare la biodiversità dell’ecosistema.
Le cause di questa deforestazione incalzante, che ha ormai ridotto le foreste dell’isola a meno del 10% rispetto alla copertura iniziale, sono radicate nelle profondità di fattori sociali, economici, politici e storici del Paese. Il Madagascar è una delle più povere regioni del pianeta: l’80% della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e dipende interamente da essa per la propria sopravvivenza.
Eppure negli anni ’80 il governo malgascio ha riconosciuto che il degrado ambientale era la principale minaccia per la popolazione e per la biodiversità, che veniva riconosciuta come uno dei maggiori tesori dell’isola. Con l’aiuto di donatori di vari Paesi, di agenzie governative e di ONG, fu elaborato un documento noto come National Environmental Action Plan. Si trattava di un documento operativo, per mettere in atto una serie di azioni volte ad arrestare la spirale di distruzione in corso, ridurre la povertà, sviluppare una gestione sostenibile per le risorse naturali e proteggere la diversità naturale istituendo parchi e riserve. La premessa della prima fase del piano (1991-1995) era quella che le popolazioni che vivevano in zone limitrofe ai parchi potessero beneficiare delle risorse e allo stesso tempo farsi garanti della conservazione del parco stesso, in un approccio integrato che si proponeva di attivare buone prassi attraverso la realizzazione di reciproci vantaggi basati, ad esempio, sulla promozione di un turismo responsabile (si pensi alla penisola di Masoala, inaugurata grazie anche al sostegno di Care International).
Nonostante i risultati raggiunti di recente (più di 6800 chilometri quadrati di terra sono ora aree protette), il problema del disboscamento illegale rimane, e rappresenta per il Paese un crimine che continua ad essere perpetuato grazie anche alla connivenza di governi corrotti e alla povertà estrema, che prosegue nei “tagli selettivi” per trarre legni pregiati, soprattutto palissandro ed ebano (non del tutto efficace evidentemente il provvedimento che ha dichiarato illegale dal 2000 il disboscamento di legni duri nelle aree protette). Le fasi alterne di “legalità e illegalità” hanno sollevato, oltre a numerosi dubbi sulle ragioni di questa alternanza, anche l’inevitabile problema della pesante oscillazione dei prezzi.
La sopravvivenza di popolazioni e vegetazioni, in una corsa verso lo schianto, continua a dipendere dalla tecnica del “taglia e brucia”, che distrugge una risorsa eccezionale, se non la principale, per il Paese e per il Pianeta – la foresta appunto, dalla quale vengono tratti cibo, rifugio, nutrimento per il bestiame, medicine, fibre, resine, materiale da costruzione e vestiti. L’estinzione di alcune specie di lemuri è sicuramente imputabile alla distruzione delle foreste. A chi toccherà dopo i primi mammiferi?
di Anna Molinari