L’utero in affitto è moralmente un’aberrazione

img-_innerArtFb-_STEPCHILDL’approvazione del Ddl Renzi-Boschi sulle unioni civili e la notizia del figlio avuto dal compagno di Nicky Vendola con l’utero in affitto, che l’ex governatore della Puglia ora vorrebbe adottare, ha riportato la tematica della maternità surrogata nell’ambito della stretta attualità. Ma per quale motivo la gestazione in affitto è moralmente sbagliata? Esiste un criterio laico e razionale che vada al di là dell’emotività del momento per discernere l’intrinseco errore che si cela dietro questa pratica? La Bussola ospita l’intervento di Michele Paolini Paoletti, dell’Università di Macerata.

«Al di là di vaghi richiami ai desideri individuali, all’autodeterminazione e all’amore e al dono di sé “che tutto vincono”, si fatica a trovare in Italia una seria riflessione laica sulla maternità surrogata. Con “laica” intendo una riflessione che possa prescindere dall’assunzione delle verità di fede in quanto verità di fede, cioè una riflessione capace di coinvolgere e magari persuadere anche chi non crede in quelle verità.

E dunque: è moralmente accettabile la maternità surrogata? Per non generare confusione, bisogna distinguere due situazioni: la maternità surrogata “pagata” e quella “gratuita” o “donata”.

Vediamo il primo caso. Quando io pago una persona per qualcosa, come già spiegava più di due secoli fa Adam Smith, io non sto semplicemente comprando un bene o un servizio da quella persona. Sto comprando il suo tempo. Quando compro un orologio, sto comprando il tempo che un artigiano ha impiegato per realizzare il mio orologio – e anche il tempo che egli ha impiegato per imparare a costruire un buon orologio. Quando compro un chilo di carne, sto comprando il tempo di colui che ha macellato la carne, ma anche il tempo di chi ha allevato gli animali. Il tempo misura il valore di qualcosa ben prima del suo valore di mercato. In tempi di capitalismo finanziario, abbiamo dimenticato questa banale verità.

Ad ogni modo, non tutto può essere quantificato in termini di tempo. Se il valore del rapporto con una persona consistesse soltanto nel tempo trascorso assieme (o nel tempo “libero” cui rinunciamo per stare con lei), allora i rapporti meno duraturi sarebbero per definizione di minore valore. Ma chiedete agli Apostoli quale valore ebbe per loro passare pochissimi anni o mesi con Gesù, rispetto a tanti altri rapporti… Di alcuni si racconta che bastò uno sguardo, o una semplice parola, per cambiare tutto. Inoltre, se il valore della vita di un figlio fosse quantificabile in termini di tempo, allora un figlio che vive fino ad ottant’anni avrebbe maggiore valore di un figlio che, purtroppo, muore in tenera età. Nessun genitore assennato penserebbe mai una cosa del genere. Insomma, ci sono cose il cui valore non è quantificabile in termini temporali, cose che non hanno prezzo – e probabilmente sono le stesse cose che più ci avvicinano all’eternità.

Quando una madre rinuncia al proprio figlio per darlo ad una coppia che paga per esso, non vi è alcun prezzo che possa esprimere il valore di ciò che quella madre perde – che quella madre se ne renda conto o meno. Non i nove mesi della gravidanza, non il tempo strappato ad altre occupazioni, non il tempo che non potrà trascorrere con il proprio figlio… Nessuna misura di tempo può quantificare il valore perduto. E ogni prezzo pagato sarà pur sempre troppo basso. Per questo crediamo che ci siano “beni” che non possono divenire “merci”: non già perché la maggioranza delle persone, se potesse, non si presterebbe alla loro mercificazione, ma perché tali “beni”, oggettivamente, non possono diventare “merci”, non potendo avere alcun prezzo.

Chi ha davvero lottato perché il tempo del lavoro di un operaio non fosse rubato dal capitalista, perché il prodotto, i mezzi e la natura stessa dell’atto di produzione trovassero riconosciuta la loro dignità a prescindere dal mercato e dai suoi interessi, dovrebbe ora alzare le barricate contro queste gravissime pretese di mercificazione. E invece…

Ma veniamo al secondo caso, quello della maternità surrogata “gratuita”. È moralmente accettabile che una donna, liberamente e senza compensi o rimborsi, e anzi ritenendo in buona fede che il suo sia un grandissimo gesto di amore, si offra come madre surrogata per realizzare il desiderio di genitorialità di una coppia (eterosessuale o omosessuale)? Cosa potrebbe esservi di sbagliato nell’esaudire gratuitamente un desiderio e nel garantire così un diritto – come avviene nel civilissimo Regno Unito? Di più: che differenza vi sarebbe con una qualsiasi adozione?

All’ultima domanda si può rispondere con quanto notato intelligentemente da Serena Sileoni (Il Foglio, 2 marzo 2016): “l’adozione non è un istituto che primariamente soddisfa il desiderio di genitorialità, ma che guarda a un minore in stato di abbandono”; “nell’adozione, è già al mondo un fanciullo in difficoltà, una prospettiva completamente diversa da quella di un adulto che desidera far nascere un bambino”. In un’adozione il bambino è accolto come il centro dell’intero processo: tutto ruota attorno al suo diritto di avere un padre e una madre e di vivere in modo soddisfacente. Viceversa, il motore propulsore di una maternità surrogata è il desiderio di una coppia di avere un figlio. Dispiace dirlo, ma in questa prospettiva sia il figlio che la madre surrogata sono primariamente dei mezzi per soddisfare tale desiderio.

Pertanto, ciò che viene meno in una maternità surrogata è la condizione necessaria di ogni diritto e di ogni libertà in una democrazia liberale: il fatto che l’umanità propria e quella degli altri, per dirla con Kant, siano trattate come fini, e mai siano trattate come mezzi. In effetti, i miei diritti contano qualcosa solo se la mia natura e la mia esistenza non sono dei mezzi. Viceversa, ogni diritto può essere piegato al volere di chi mi usa per i propri scopi. Per inciso: qui non si tratta della semplice libertà di fare ciò che si vuole purché non si sia di ostacolo ad altri. Anche in uno Stato totalitario si potrebbe godere di una simile libertà: se lo Stato riuscisse a determinare ciò che voglio (con la propaganda e la persuasione), esso potrebbe garantirmi tale libertà e i diritti che ne conseguono. Tuttavia, non si tratterebbe affatto di una democrazia liberale, poiché io sarei trattato come un mezzo per soddisfare i bisogni dello Stato e di chi lo governa.

La natura della madre surrogata (il suo essere donna) e la natura del figlio (il suo essere un umano) sono piegate al progetto di soddisfazione di un desiderio. Certamente, lo stesso tipo di operazione potrebbe avvenire nelle intenzioni di chi compie un atto riproduttivo naturale: il figlio e/o la madre potrebbero essere usati solo per soddisfare un forte desiderio di genitorialità. Nondimeno, lo Stato non è chiamato a legiferare sulle intenzioni, ma sugli atti. E la maternità surrogata è un atto che esprime, in maniera inequivocabile, una visione aberrante dell’umanità.

Ancora una volta dispiace dirlo, ma conta poco, in termini di giustificazione morale, che una donna si presti felicemente a questo progetto. E conta poco che qualcuno avverta fortemente il desiderio (pur buono) di essere padre o madre. La strada per l’inferno può essere lastricata di ottime intenzioni.

E nessuno intende negare che il figlio di una madre surrogata sarà amato dalla coppia che lo ha voluto. Certamente, è facile amare ciò che si vuole, il frutto realizzato del proprio desiderio. Ben più difficile è amare ed accogliere chi non si vuole, chi contrasta (volutamente o meno) con le nostre attese ed i nostri desideri, eppure si impone come una presenza unica ed irreducibile nelle nostre vite.

Sarebbe una bella sfida se ci si riuscisse ad amare così. Nonostante tutto. Persino nonostante il fatto che tu, amore mio, non sarai mai capace di realizzare il mio vibrante desiderio di genitorialità».

di Michele Paolini Paoletti | Lanuovabq.it

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