C’è un giudice che si è stufato di tacere. Dialogo con Piero Tony, alla ricerca del filo d’Arianna che ci porti fuori dal dedalo giustizialista in cui siamo imprigionati da vent’anni.
Certo che mi dà fastidio», dice Piero Tony. Siamo sempre lì, e sono più di vent’anni che siamo fermi allo stesso punto, eppure resta difficile per chi ha fatto del garantismo un credo e non solo una posa di circostanza, non mostrare una caparbia insofferenza per la pubblicazione delle intercettazioni sui giornali; per i titoli che alludono a didascalie non scritte (“sono tutti ladri”); per editoriali ed elzeviri che fomentano istinti giustizialisti e sbrigativi, ché non c’è tempo per i processi, per capire, per verificare prove e dichiarazioni.
Sono i giorni in cui sui quotidiani, dopo gli ultimi scandali che hanno riguardato alcuni esponenti politici, troviamo le parole del presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, e quelle del presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Quest’ultimo ha detto in Senato che «questo paese ha conosciuto anche negli ultimi venti, venticinque anni, pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo». Davigo, con due interviste, prima sul Fatto Quotidiano e poi sul Corriere della Sera, è andato alla pugna lancia in resta. Traducendo un po’ grezzamente (ma senza falsificarlo) il Davigo-pensiero potremmo sintetizzarlo così: “Sono loro che rubano, noi li mettiamo solo in galera”.
Siamo sempre lì, dicevamo. E, al di là dei riferimenti ai casi più recenti di cronaca o all’ultima polemica politica, la sensazione è di ritrovarsi di nuovo nel labirinto dei delicati rapporti tra magistratura e politica, dove la collisione è ormai regola «e il processo mediatico – prosegue Tony parlando con Tempi – l’unico che sembri poter essere celebrato. Le indagini preliminari sono ormai diventate “il” processo. Quello vero ci sarà solo fra cinque o sei anni, quando ormai nessuno se ne ricorderà più». Nel frattempo, però, altri processi mediatici saranno celebrati, altri titoli di giornale saranno stampati, altre leggi e leggine saranno state scritte per rattoppare, emendare, cercare di fermare la valanga con le mani. Come si esce del labirinto?
Piero Tony lo conoscete. Come ha scritto Giuliano Ferrara, Tony è «un magistrato che si è stufato», è un uomo con una lunga carriera nei tribunali e nelle aule di giustizia che «ha scelto di chiamarsi fuori per essere finalmente dentro il problema della malagiustizia». Per farlo ha scritto un libro con il direttore del Foglio Claudio Cerasa che si intitola Io non posso tacere (Einaudi) e l’ha pubblicato un anno fa. Da allora, gira l’Italia per presentarlo – è stato a Milano il 2 maggio con Gabriele Albertini e Maurizio Tortorella – e illustrare, come la copertina del volume già rende evidente, che esistono magistrati «contro la gogna giudiziaria» e che ve ne sono, come è il suo caso, tra i «giudici di sinistra».
Bignè per giornalisti
Nato a Zara nel 1941, magistrato dal 1969, è stato presidente del tribunale per i minorenni di Firenze e procuratore capo di Prato tra il 2006 e il 2014, quando si è dimesso con due anni d’anticipo. Di lui le cronache nazionali ricordano soprattutto la requisitoria con cui smontò la sentenza di primo grado su Pietro Pacciani, il “mostro di Firenze”. Il suo libro è ricchissimo di spunti e critiche alle correnti della magistratura (e lo dice lui che dagli anni Settanta è iscritto a quella di sinistra, Md), all’obbligatorietà dell’azione penale («una simpatica barzelletta»), alle intercettazioni, al concorso esterno. E alla carcerazione preventiva. «Vede – dice Tony a Tempi –, già negli anni Settanta io provavo un certo fastidio per quanto il cautelare incidesse sui processi. Ma una volta, col processo inquisitorio, esistenza un fascicolo solo. Ora non è più così e il dibattimento si fa solo dopo quattro o cinque anni. Alcuni si stupiscono che vi siano testimoni o indagati che affermano di non ricordarsi quanto fosse accaduto cinque anni fa. Ma è normale! Chi di noi potrebbe ricordarlo con certezza? È un sistema che non funziona. Ora le indagini preliminari sono diventate centrali. Ma queste dovrebbero servire solo a dirci se è ragionevole o meno che si faccia il processo». Invece, che cosa capita? «Capita che le indagini preliminari siano “il tutto”, l’essenza centrale e definitiva del procedimento, e il resto lo facciano i giornali». Poi basta soffiare sulle scintille perché il fuoco avvampi. «Basta seguire il mainstream», aggiunge un po’ sconsolato Tony, «e il gioco è fatto».
Nel libro con Cerasa, Tony ha trovato un’immagine efficace per illustrare questa dinamica: si tratta del bignè. «Il dato di partenza è questo: l’eccessiva disinvoltura con cui le intercettazioni vengono inserite nei fascicoli è spesso indice della difficoltà con cui gli inquirenti gestiscono un’indagine. Ci sono poche prove, si hanno molte intercettazioni, quindi si riempiono con queste i fascicoli giudiziari e subito, quasi automaticamente, si affianca al processo ordinario quello mediatico, assecondato dal metodo del copia-incolla. Un metodo ormai collaudato che cattura l’attenzione dei giornalisti e rende appetibile un’indagine, proprio come un bignè. Funziona così: tu procuratore ricevi dodicimila pagine di intercettazioni, le inserisci integralmente nella richiesta di custodia cautelare, perché il copia-incolla è pure molto comodo, poi te le ritrovi nell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari. Anche se alcune di queste intercettazioni non hanno alcun rilievo penale e coinvolgono la privacy di persone estranee sai perfettamente che grazie al metodo del copia-incolla rimarrà tutto lì: a ingrossare il fascicolo e a regalare qualche ottimo bignè ai giornalisti».
Intercettazioni in cassaforte
E il bignè ai giornalisti piace moltissimo. Un altro magistrato, Carlo Nordio, è da vent’anni che si batte contro la diffusione delle intercettazioni. Più volte ha scritto, e detto, che sono solo uno degli strumenti d’indagine e che, comunque, è meglio che non finiscano sui giornali. Tony concorda e più volte ha ricordato come lui stesso, da procuratore capo di Prato, si regolò sulla materia dando una semplice direttiva: «Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi ai miei sostituti di fare un riassunto delle intercettazioni, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: i terzi indebitamente coinvolti restano protetti, e nessuno, per fare un esempio, saprà mai che il sottosegretario è omosessuale. Ma così il pm dovrebbe fare fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla, che troppo spesso si trasforma in un ferro incandescente».
«Sia chiaro – prosegue Tony dialogando con Tempi – io penso che le intercettazioni siano uno strumento indispensabile. È cambiato il nostro modo di comunicare e averle a disposizione diventa per chi indaga uno strumento prezioso. Però concordo con Nordio: non sono prove, ma mezzi per ricercare delle prove. La distinzione è fondamentale. Sono indizi, spunti per attivarsi in una ricerca. Quel che finisce nel bignè non è una prova, ma solo il mezzo di ricerca della prova».
Da anni si discute come limitarne la diffusione, ma, anche in questo caso, pare si sia finiti in un dedalo senza uscita. «Non è vero, come si è scritto, che l’attuale sistema consente di stralciare le intercettazioni irrilevanti. Il pubblico ministero non può farlo perché l’articolo 268 del codice di procedura penale è chiaro: il pm deve depositare in segreteria, con avviso agli avvocati e prima dell’udienza filtro, tutte le intercettazioni e i brogliacci. Così accade che nei processi su cui si concentra maggiormente l’attenzione dell’opinione pubblica o quelli in cui sono coinvolte a vario titolo diverse persone coi loro avvocati, l’intercettazione irrilevante, ma “piccante”, sia diffusa. Da dove è uscita la notizia? La verità è che quando ci poniamo la domanda, i buoi sono già scappati». E dunque? «E dunque – sospira Tony – non c’è molto da fare se non agire in modo che il procuratore, e non la polizia giudiziaria, assieme al gip, disponga la chiusura in cassaforte di quelle irrilevanti. Solo così, all’udienza stralcio, arriveranno solo quelle intercettazioni che sono rilevanti ai fini del nostro processo».
La regola del sospetto
«Non hanno smesso di rubare – ha detto Davigo al Corriere riferendosi ai politici –; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto». Oggi è peggio che ai tempi di Mani Pulite, insomma. Lo ha detto qualche giorno dopo al Fatto quotidiano anche il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato: «Viviamo in un’eterna Tangentopoli». Il rimedio è dunque agire, e senza troppe sottigliezze, soprattutto quando sul banco degli imputati ci sono dei politici. Il sospetto è prova sufficiente e necessaria. «Penso che ai tempi di Mani Pulite – spiega Tony – certamente l’etica politica era sotto i tacchi. In fondo, lo era già da qualche anno se ricorda la copertina del 1955 dell’Espresso: “Capitale corrotta, nazione infetta”. Tuttavia, questo non mi vieta di vedere che, anche da parte della magistratura, si procedette fuori dalle righe».
Venendo all’oggi, Tony predica cautela e invita i magistrati, compreso Davigo, a essere meno assertivi: «Anche perché, come abbiamo già visto, spesso “sospetti” utilizzati come prove poi si è scoperto essere stati suscitati ad arte». Il filo d’Arianna per uscire dal labirinto è la riscoperta dell’ovvio: «La magistratura non deve interessarsi degli usi e dei costumi, ma dei reati. Deve dirci se una persona è colpevole o innocente. E basta».
Foto Ansa
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