Denis Mukwege, ginecologo, premio Nobel per la pace, si batte per i diritti delle donne e denuncia la sete di denaro delle compagnie minerarie.
Denis Mukwege è nato sessantaquattro anni fa a Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo, figlio di un pastore protestante. Ha studiato medicina in Burundi e poi si è specializzato, in Francia, in ginecologia. Rientrato dapprima a Lemera, tra le montagne del Congo oreintale, ha fondato nel 1998, a Bukavu, in piena guerra civile, il “Panzi Hospital”, per curare le donne vittime di violenze sessuali. In quella regione infatti stupri e mutilazioni sono armi strategiche usate dalle milizie. Colpendo le donne, le milizie distruggono le famiglie e quindi le strutture sociali ed economiche di base.
Denis Mukwege a Dortmund
Denis Mukwege ha ricevuto innumerevoli minacce ed è stato anche vittima di alcuni attentati. Ma ciò non gli ha impedito di portare il fenomeno degli stupri di guerra prima all’attenzione del suo governo – che a lungo si è ostinato a ignorarlo – e poi della comunità internazionale. Lo scorso anno, Mukwege ha ricevuto il premio Nobel per la pace per il suo impegno in difesa dei più deboli e dei diritti delle donne. L’ho intervistato a Dortmund in occasione del Kirchentag delle chiese evangeliche tedesche.
Dottor Mukwege, qual è il messaggio che lei intende trasmettere?
Voglio trasmettere il messaggio delle donne che ho incontrato ovunque, e in particolare nella Repubblica democratica del Congo, dove da vent’anni gli stupri sono utilizzati come arma di guerra. Si tratta di un’arma che ha fatto moltissimi danni. Il corpo delle donne è utilizzato come campo di battaglia, insieme ai massacri e alla deportazioni di grandi masse di popolazione. Le Nazioni Unite hanno pubblicato dei rapporti su questo fenomeno, ma quei rapporti sono rimasti chiusi nei cassetti. Noi sappiamo che non è possibile costruire la pace se manca la giustizia. Le chiese devono assolutamente far emergere la verità, affinché possiamo avviarci sul cammino del perdono, della riconciliazione e della costruzione di una pace durevole.
Non è possibile costruire la pace se manca la giustizia
Perché questo dramma colpisce in particolare la Repubblica democratica del Congo?
Perché nella parte orientale del Paese si trovano immense riserve di coltan, un minerale presente nel sottosuolo e che è essenziale per la fabbricazione di molti apparecchi elettronici di uso quotidiano. Il conflitto nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo non è un conflitto etnico, o tra nazioni, o tra provincie in guerra tra di loro, ma è un conflitto legato alle ricchezze naturali, ai minerali. Abbiamo fatto delle ricerche che dimostrano come i conflitti scoppino soprattutto là dove si trovano il tungsteno, lo stagno, il tantalio e l’oro.
Navi Pillay, alto commissario ONU per i diritti umani
Ufficio ONU per i diritti umani | Mapping human rights violations 1993-2003
Dottor Mukwege, lei svolge un’intensa attività anche fuori dal Congo, partecipando ad assemblee e intervenendo davanti a parlamenti. A quale scopo?
Nel corso degli ultimi anni mi sono impegnato a favore dell’adozione di misure che permettano di tracciare i minerali per evitare che il loro commercio continui ad alimentare la violenza. Grazie a quegli sforzi, è stata adottata una direttiva europea sui doveri di diligenza delle imprese per quanto concerne gli approvvigionamenti di minerali provenienti da regioni in cui sono in corso dei conflitti. La direttiva entrerà in vigore nel 2021. Ma qui vorrei ancora insistere su un altro fatto che ci rende inquieti. Oggi cresce, in tutti i Paesi occidentali, la domanda di vetture elettriche. Per costruire le batterie di quelle auto serve il cobalto. Purtroppo quel minerale si trova in grandi quantità nella Repubblica democratica del Congo. Abbiamo perciò paura che l’avvento delle auto elettriche possa segnare l’inizio di un nuovo conflitto, che potrebbe causare molte vittime, originato dalla caccia al cobalto.
Che cosa possono fare le chiese per disinnescare nuovi possibili conflitti?
Credo che le chiese, così come la stampa, possano svolgere un ruolo importante, di prevenzione, per evitare che noi subiamo di nuovo quello che già abbiamo subito a causa del coltan. Il Congo è il primo produttore mondiale di cobalto. I suoi confini vennero tracciati nel 1885, in Germania. Da allora il Paese è stato vittima della caccia alle sue risorse naturali. Oggi temiamo che per avere vetture pulite le norme sul rispetto dell’ambiente e sui diritti umani vengano nuovamente calpestate. Le chiese possono intervenire per fare in modo che questa volta le cose vadano in modo diverso, rispettoso dell’ambiente e delle popolazioni.
Il fatto di essere stato insignito del premio Nobel per la pace ha cambiato qualcosa nella sua lotta per la giustizia in Congo?
Il fatto che io sia stato insignito del Premio Nobel è risaputo all’estero, ma non nel mio Paese. Il giorno in cui ho ricevuto il Nobel, a Oslo, la televisione nazionale ha trasmesso una partita di pallacanestro. Questo aneddoto vi può far capire come non mi senta affatto al sicuro. Ogni giorno ricevo minacce. Quando sono in Congo vivo sotto la costante protezione delle Nazioni Unite. E anche il personale con cui lavoro riceve continuamente delle minacce.
Ogni giorno ricevo minacce e vivo sotto la costante protezione delle Nazioni Unite
Che legame c’è tra la sua fede, il suo essere cristiano e la lotta che conduce per i diritti delle donne?
Come cristiano credo nel ruolo profetico della chiesa. In una società alla deriva e che non cammina secondo la volontà di Dio, questo ruolo consiste nel dire ai dirigenti quale sia la volontà di Dio. Quando io denuncio le violenze e gli stupri, dico che si tratta di violenze commesse per distruggere l’individuo, la comunità e anche la chiesa. La violenza compiuta su di una donna, stuprata davanti ai suoi bambini e a suo marito, equivale a distruggere quella donna, creata a immagine di Dio. Lottare per i diritti umani per me non significa affatto allontanarmi dalla mia fede cristiana, e anche quando curo le vittime della violenza non mi allontano dalla fede perché anche Gesù, quando ha incontrato dei malati, li ha curati, fisicamente e spiritualmente.
Come vede il futuro del Congo? C’è una concreta speranza di pace per il suo Paese?
Nel mio Paese si è cercato di costruire la pace senza la giustizia. E oggi che cosa vediamo? Vediamo che la violenza continua, perpetrata spesso dagli stessi che la praticavano già vent’anni fa. Si ruba, si saccheggia, si stupra, si distrugge. Perché succede questo? Perché quei violenti ritengono di poter continuare per la loro strada senza temere di essere puniti. Noi crediamo invece che la giustizia faccia maturare la verità, e quando si conosce la verità, la gente può prendere coscienza della gravità di ciò che è accaduto. Solo allora può cominciare il processo di perdono che può portare alla riconciliazione e alla costruzione di una pace durevole.
La giustizia fa maturare la verità, e quando la gente conosce la verità, può prendere coscienza della gravità di ciò che è accaduto
Dove trova la forza per continuare nella sua attività?
Ci sono due cose che mi aiutano quando mi sento disperato. La prima cosa è la mia fede. La seconda cosa sono le donne che curo. Curando delle donne, ho scoperto che esse hanno una forza eccezionale. Molte donne arrivate da me, in ospedale, erano in condizioni disperate. Avevano perso il marito, tutta la loro famiglia, ed erano entrate in ospedale in stato di coma. Ma non appena si svegliano – dal coma, o dall’anestesia -, la prima domanda che quelle donne pongono è “dove sono i miei figli? Dov’è mio marito?”. Si chiedono dove stiano gli altri, e in quali condizioni. Quando vedo questa reazione da parte delle donne, rimango colpito. Le donne tendono a occuparsi degli altri, e si preoccupano che gli altri – che stanno intorno a loro -, stiano bene. Dunque io dico a me stesso: “Se c’è qualcosa che io posso fare per quelle donne coraggiose di cui mi prendo cura, è aggiungere una goccia all’oceano d’amore che esse per prime donano”. Più volte mi sono perso d’animo, ma attraverso le loro parole, attraverso le loro azioni, ho ritrovato la forza di riprendere il mio lavoro.
Dottor Mukwege, lei parla delle donne e alle donne. Ma ha una parola da dire anche agli uomini?
Per quanto concerne gli uomini, credo che noi viviamo in una società patriarcale, in cui gli uomini hanno difficoltà ad accettare l’uguaglianza. E malgrado il fatto che in molti Paesi siano stati fatti dei progressi in questo campo, non c’è ancora oggi nessuna nazione che possa affermare di avere raggiunto la parità tra uomo e donna. In numerosi ambiti, continuano ad esserci dei disequilibri. Nel mio Paese, il Congo, questo squilibrio è enorme.
Grazie alle donne ho ritrovato la forza di riprendere il mio lavoro
In molti Paesi, il diritto di voto per le donne è stato introdotto solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si è trattato di un grande progresso che ha permesso alle donne di essere là dove oggi si trovano. Sono stato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, insieme al ministro tedesco degli affari esteri, e ho constatato, con grande costernazione, che anche nei Paesi considerati democratici, si assiste a un peggioramento della situazione per quanto concerne i diritti delle donne e alla parità tra uomini e donne.
Oggi rivolgo pertanto un appello agli uomini: “Lavorate su voi stessi per sbarazzarvi dalla vostra mascolinità dominante, perché è una mascolinità tossica. Adottate piuttosto una mascolinità positiva che vi porti a considerare le donne come aventi i medesimi diritti degli uomini. Dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento”. Gli uomini possono fare la differenza. Le donne si sono battute per oltre cento anni per ottenere la parità, è ora che gli uomini rispondano a loro volta in modo positivo.
Nella sua vita, dottor Mukwege, non ci sono mai momenti di quiete?
Già prima di ricevere il Premio Nobel la mia vita era piuttosto frenetica. Dal 2013 vivo di fatto nell’ospedale, insieme ai miei pazienti. Da quando ho subito un gravissimo attentato non abito più a casa mia e perciò è come se fossi in permanenza di guardia. In queste condizioni, avere un momento di raccoglimento e di pace non è affatto facile. Tuttavia il mattino, al risveglio, riesco a ritagliarmi un tempo per la meditazione, un tempo in cui parlo con la mia anima e con Dio. È un momento che mi edifica, sul piano spirituale e fisico e anche sul piano dei miei progetti per il futuro. Mi alzo alle cinque, e fino alle sette mi dedico alla meditazione, non importa dove mi trovo. (intervista di Paolo Tognina)
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