Roma (NEV), 4 agosto 2024 – C’è qualche luce nel tunnel buio della guerra in Medio Oriente? Gli ultimi sviluppi del conflitto tra israeliani e palestinesi non offrono alcun elemento di speranza, anzi consentono previsioni drammaticamente oscure.
Buona parte degli ostaggi israeliani del 7 ottobre è ancora nelle mani di Hamas; la ritorsione israeliana ha prodotto oltre 35.000 vittime tra i palestinesi; il missile di Hezbollah contro il villaggio israeliano sulle alture del Golan ha riaperto un altro fronte di guerra, a Nord; l’attentato in Iran contro Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas, l’uomo che stava negoziando una tregua, fa prevedere la ritorsione iraniana contro Israele.
Intanto, buona parte della popolazione israeliana vive nel terrore dei missili e degli attentati, tutti i palestinesi di Gaza sono vittime di massicce manovre militari che non risparmiano i civili, gli ospedali, le scuole, gli acquedotti. E tutto questo è noto, riconosciuto, ammesso e perfino rivendicato come un diritto. Da una parte e dall’altra arrivano messaggi d’odio e minacce di vendetta, ritorsione, ulteriori violenze. Difficile pensare a uno scenario più cupo e drammatico.
Ma è possibile che non ci sia qualcuno che dice di no a questa logica? Negli anni ’80 e nei primi 2000, ai tempi delle intifade, sia tra gli israeliani che tra i palestinesi si erano mobilitati dei gruppi di uomini e donne che volevano la pace, e subito.
Ricordiamo grandi romanzieri come Amos Oz o David Grossman; movimenti come Peace now e, in campo palestinese, l’azione di Mubarak Awad – definito il Ghandi palestinese – poi espulso e oggi residente negli USA; o i gruppi di pacifisti che a Beit Sahur, nei territori occupati, sperimentarono una lunga lotta nonviolenta rifiutandosi di pagare le tasse e boicottando i prodotti israeliani. Esperienze e testimonianze lontane nel tempo che però rompevano la compattezza dei muri dell’odio tra due popoli destinati a vivere l’uno accanto all’altro.
Ed oggi? Dai media trapela poco o nulla e l’immagine che ci viene consegnata è quella di due fronti compatti e uniti nell’odio reciproco e nell’appello alla guerra.
Non è così. Sia tra gli israeliani che tra i palestinesi ci sono individui, gruppi, associazioni impegnate a costruire canali di dialogo con il “nemico”. Ovviamente sono visti con il massimo sospetto, accusati di tradire il proprio popolo e la causa della sua sicurezza e dei suoi diritti, eppure sono determinati e sicuri di lavorare per il bene reciproco.
“La nostra è una doppia lealtà – spiega un’attivista per la pace -. E’ condividere il dolore e la speranza di un amico che non ha notizie dei propri parenti rapiti, e un attimo dopo parlare al telefono o in chat con un amico di Gaza, che ti dice che ogni notte è la più spaventosa della sua vita, che calcola le probabilità che hanno le sue figlie di sopravvivere, di svegliarsi ancora vive la mattina seguente. La doppia lealtà è sentire il dolore di entrambi”.
La logica della guerra è opposta, non ammette una doppia lealtà, a se stessi e alle ragioni degli altri, ma impone una unica verità e il dovere assoluto di annientare o umiliare il nemico per salvare se stessi.
Combatants for peace, sono militari o ex militari sia israeliani che palestinesi che, proprio perché consapevoli di che cosa sia la guerra, oggi si mobilitano per la pace. Il Parents Circle – Family forum è un’associazione che unisce parenti di vittime, sia israeliane che palestinesi. La morte di un figlio o di un fratello non li ha impietriti nell’odio e nel desiderio di vendetta ma, al contrario, li ha uniti nel comune impegno per la pace.
Nevé Shalom – Wahat as Salaam è un villaggio nel quale, da decenni, convivono israeliani e palestinesi, compresi bambini e bambine che frequentano la stessa scuola, con gli stessi programmi. Sono solo alcuni frammenti di una realtà viva che illumina di speranza un tunnel oscuro. Incominciamo a conoscere e a sostenere questa realtà. Di fronte a chi arruola nuove leve per altre campagne d’odio, è un concreto gesto di pace.
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