Perché – nella guerra che Arabia Saudita e Iran combattono tra loro per procura ormai da molto tempo in una vasta area che va dalla Siria fino allo Yemen – in questo inizio 2016 Riyad ha scelto di alzare l’asticella delle ostilità con una mossa come l’esecuzione dell’imam sciita Nimr al-Nimr? Non si può certo dire che le conseguenze di un atto del genere non fossero prevedibili; e la rottura delle relazioni diplomatiche tra due Paesi che da mesi si attaccano violentemente non è poi una notizia così sorprendente. Ma perché proprio ora?
Certamente in Siria e (ancora di più) in Yemen le cose non stanno andando affatto bene per i sauditi, impantanati in conflitti apparentemente senza sbocchi. C’è però un fronte meno visibile eppure altrettanto cruciale per Riyad che secondo tutti gli analisti sta ormai per esplodere: quello legato al mercato del petrolio. L’accordo sul nucleare iraniano sta infatti andando avanti secondo le tappe stabilite: lunedì 28 dicembre una nave russa ha portato fuori dall’Iran la quantità di uranio arricchito concordata negli accordi dell’estate scorsa tra Teheran e il gruppo dei 5+1. Un atto che il segretario di Stato americano John Kerry si è affrettato subito a definire come «uno dei passi più significativi dell’Iran per il pieno adempimento dei propri impegni». Così il 2015 sui mercati delle commodities si era chiuso con la convinzione che ormai la revoca delle sanzioni sulle esportazioni del petrolio iraniano fosse solo questione di settimane.
Passaggio non da poco: prima dell’entrata in vigore dell’embargo, infatti, l’Iran era il secondo produttore mondiale di petrolio, in grado di esportare quasi 3 milioni di barili al giorno. Dal 2012 con le sanzioni la sua quota è poi scesa fino all’attuale milione di barili al giorno; ed è ovvio che Teheran oggi non veda l’ora di recuperare il terreno perduto. Anche perché nel frattempo quel milione di barili vale molto meno di ieri, con le quotazioni del greggio scese dai quasi 100 dollari al barile di un anno e mezzo fa agli attuali 40 scarsi. Scese perché proprio l’Arabia Saudita – nel frattempo – ha continuato a produrre ed esportare petrolio in quantità record, nonostante l’evidente eccesso di offerta presente sul mercato. Una politica legata a due obiettivi: da una parte vincere la concorrenza dello shale oil americano, il petrolio estratto dalle rocce, che ha costi di estrazione molto più alti; dall’altra – però – anche colpire economicamente proprio l’Iran, che con l’embargo ha molto più da perdere rispetto all’Arabia Saudita quando il prezzo del greggio è molto basso.
Riyad – di fatto – ha puntato allo strangolamento economico di Teheran per vincere il conflitto in Medio Oriente. E per farlo ha accettato di mandare la stessa Arabia Saudita pesantemente in deficit: il bilancio 2016, presentato qualche giorno fa, parla di uno squilibrio di 87 miliardi di dollari tra entrate e uscite. Un’anomalia per il regno saudita che – pur avendo riserve finanziarie ingenti in grado di affrontarla – è stato lo stesso costretto in questi mesi ad adottare provvedimenti inediti come l’emissione di bond e l’innalzamento dei prezzi dei carburanti. Questo gioco – però – alla fine rischia comunque di andare a monte per l’Arabia Saudita se davvero le sanzioni sull’esportazione di petrolio iraniano verranno revocate. Anzi, a quel punto con Teheran rischierebbe di innescarsi addirittura un’ulteriore corsa alla produzione, in un mercato già oggi inondato di petrolio e con una domanda globale in frenata, come quanto successo ieri nelle Borse asiatiche ha ulteriormente confermato.
Alzando il livello dello scontro con Teheran, dunque, l’Arabia Saudita sta puntando soprattutto a mettere in difficoltà l’amministrazione Obama: andando avanti negli accordi con l’Iran e revocando le sanzioni, si troverebbe infatti a compiere una scelta di campo contraria rispetto al tradizionale asse strategico di Washington con Riyad. Ed è emblematico che in soccorso dei sauditi dagli Stati Uniti in queste ore sia subito sceso in campo Donald Trump: «L’Iran, con i soldi e tutto il resto che ha ricevuto da Obama, voleva una strada per prendersi l’Arabia Saudita e il suo petrolio: l’hanno trovata», ha scritto in un tweet il magnate in corsa per la nomination Repubblicana alla Casa Bianca. L’alleanza tra i sauditi e l’opposizione Repubblicana ha, quindi, possibilità di riuscire a riaprire la partita sull’accordo con l’Iran? Per il momento i mercati ci credono poco. Tanto è vero che i timori su un possibile aumento del prezzo del petrolio ieri sono durati giusto qualche ora: in serata a New York la quotazione dell’indice Nymex era già tornata sotto i 37 dollari.
Da parte sua – però – va anche detto che l’Iran non sta a guardare: forte dell’asse con Mosca nelle scorse settimane ha sfidato l’amministrazione americana compiendo nuovi test balistici che non lasciano per niente tranquilli sulle sue intenzioni sul medio periodo. E per di più a febbraio a Teheran è in programma un passaggio delicatissimo come le elezioni per l’Assemblea degli Esperti, il potente organo giuridico-religioso a cui spetterebbe l’elezione della Guida Suprema in caso di morte dell’ayatollah Ali Khamenei.
È una partita con molti più attori rispetto a quelli che compaiono alla ribalta, dunque, quella che si sta giocando tra Riyad e Teheran. E – ancora una volta – il petrolio sarà un ingrediente da tenere d’occhio molto più delle piazze infiammate e delle dichiarazioni roboanti dei politici per capire quale direzione prenderà questa crisi.
di Giorgio Bernardelli | Lanuovabq.it
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