Il 31 ottobre due operai del settore tessile sarebbero rimasti uccisi nel corso delle proteste che a Dacca avevano coinvolto oltre cinquemila persone. I manifestanti richiedevano il pagamento rimasto in sospeso dei loro salari. In risposta molte aziende mettevano in atto la serrata.
Negli scontri tra lavoratori e forze di polizia (a cui si erano uniti i militari) si è fatto ampio uso di manganelli, ma anche di armi da fuoco. Da parte dei manifestanti, lanci di pietre e due veicoli della polizia dati alle fiamme. Tra i feriti alcuni adolescenti. Almeno sei gli arrestatati.
Risaliva alla fine del mese scorso la conferma che con le recenti insorgenze (innescate dalle proteste degli studenti e momentaneamente sospese, se non risolte, con la fuga ai primi di agosto del Primo ministro Sheikh Hasina), il settore tessile, fondamentale per questo paese dell’Asia del Sud, avrebbe perso circa 400 milioni di dollari.
Tuttavia, come annunciava un dirigente industriale in conferenza-stampa, gli acquirenti starebbero riprendendo fiducia nel Bangladesh “ma il mantenimento continuo, senza interruzioni, dell’ordine pubblico rimane essenziale per preservare la stabilità” (e – ma forse per l’emozione se ne era scordato – i profitti).
Per cui complessivamente la situazione risulterebbe “stabilizzata”, purché venga regolarmente “tutelata e garantita dalle forze dell’ordine”.
Con oltre 35mila atelier, il settore tessile costituisce circa l’85% dei 55 miliardi di esportazioni annuali del Bangladesh, ma i “disordini” scoppiati in luglio lo avevano alquanto destabilizzato. In poche settimane c’erano stati quasi 500 morti (tra cui 42 poliziotti). O almeno quelli che è stato possibile accertare da fonti della polizia e degli ospedali. Tuttavia, anche con il nuovo governo ad interim guidato dal premio Nobel per la Pace Muhammad Yunus, le manifestazioni e gli scioperi nelle fabbriche (per salari e condizioni di lavoro adeguati) non svaporavano. Anche perché, secondo alcuni esponenti sindacali “l’atteggiamento delle aziende si è ulteriormente inasprito”.
Confrontandosi quotidianamente con un clima di paura e repressione, i lavoratori dell’industria tessile in Bangladesh subiscono il clima di persistente impunità delle aziende in materia di violazioni dei diritti umani. In un contesto di sfruttamento intensivo e di repressione legittimato, consentito e sostenuto dalle autorità statali.
Ricordando sia l’11° anniversario del crollo del Rana Plaza (aprile 2013, oltre 1100 morti e migliaia di feriti tra i lavoratori del pret a porter), sia il precedente l’incendio dell’azienda Tazreen Fashions (novembre 2012, almeno 112 morti e centinaia di feriti), Amnesty International puntava il dito accusatore sulle più evidenti violazioni operate dalle aziende:
“Pesanti procedimenti legali arbitrari nei confronti dei lavoratori per ridurli al silenzio, uso illegale della forza contro i lavoratori che manifestavano, una diffusa “cultura dell’impunità” da parte delle imprese per gli incidenti e le morti sul lavoro”.
Tra le principali cause dei ricorrenti disastri umanitari sul posto di lavoro, lanegligenza, la totale mancanza di scrupoli da parte del padronato in materia di sicurezza e per le precarie condizioni di lavoro in cui versano gli operai. Comportamenti che si qualificano come vere e proprie violazioni dei diritti umani.
A cui si oppone la lotta per ottenere salari decenti in un settore industriale che rappresenta la prima fonte di reddito nel paese.
Quanto alle richieste di indenizzo per i disastri del Rana Plaza e di Tazreen Fashions, inoltrate dal BLAST (Bangladesh Legal Aid and Service Trust) e da altre ONG, non avrebbero ancora avuto risposte adeguate (dopo ben undici anni !). Così come sembrano cadute nel vuoto le inchieste per stabilire le reali responsabilità dei gravi incidenti. Senza dimenticare, oltre alla scontata repressione di manifestazioni e scioperi, le vere e proprie esecuzioni extragiudiziarie di sindacalisti e militanti. Come nel caso, ricordava sempre A.I. ” di Shahid Islam, presidente della BGIWF (Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation) al comitato del distretto di Gazipur, assassinato nel corso di una vertenza sindacale per ottenere i salari non ancora corrisposti”.
Ricordando anche i “quattro operai morti tra ottobre e novembre 2023 durante le manifestazioni per il salario minimo”. Sempre per queste manifestazioni (durante le quali le forze dell’ordine, oltre che di manganelli e granate lacrimogene, avevano anche fatto uso di armi da fuoco) venivano emessi almeno 35 procedimanti penali con centinaia di arresti (tra l’altro una trentina di denunce provenivano da aziende legate ai grandi marchi internazionali della moda) contro lavoratori del tessile. Oltre a 160 “processi verbali introduttivi” (che comportano convocazione in tribunale, la libertà condizionale sotto cauzione e la possibile perdita del salario o del posto di lavoro) per chi aveva partecipato a scioperi e manifestazioni.
A.I. aveva incontrato numerosi sindacalisti i quali sostenevano come migliaia di partecipanti alle manifestazioni venissero schedati e inseriti in liste di possibili licenziamenti a scopo intimidatorio. Un modo per scoraggiare anche gran parte delle possibili denunce per danni e ferite sul posto di lavoro e quindi i relativi indennizzi.
Gianni Sartori