Roberto Scaini è il medico che ha coordinato l’ultima missione di Medici Senza Frontiere nel nord dello Yemen, dove non si vede la fine del conflitto scoppiato a marzo del 2015.
Ci sono guerre di primo livello e altre che sembrano avere meno importanza. Quando si parla del conflitto in Yemen ci si ritrova sicuramente ad avere a che fare con la seconda categoria, anche se l’emergenza umanitaria in questa striscia di terra nell’estremo sud della Penisola arabica è tutt’altro che minoritaria. A più di due anni di distanza dal 25 marzo del 2015, quando 150.000 soldati e 100 aerei dell’aviazione saudita entrarono nel territorio dello Yemen per colpire le postazioni dei ribelli Houthi e fermarne l’avanzata, la sensazione è che tutto sia fermo a quel punto, con l’unica eccezione delle condizioni economiche e sanitarie dei civili, precipitate a livelli unici nel mondo arabo.
Inoltre, l’Arabia Saudita, che continua a guidare la coalizione, non sembra avere nessun vero piano per una vittoria completa, né una chiara strategia per arrivare almeno alla fine del conflitto, e questo porta i 27 milioni di abitanti dello Yemen a essere al centro di un gioco geopolitico dall’esito incerto, che potrebbe dividere il Paese e che sicuramente renderà tutti vittime.
Secondo i dati pubblicati da Unicef a marzo, e ogni 10 minuti un bambino nel Paese muore a causa della malnutrizione e molti altri avranno danni permanenti dovuti alla carenza di cibo e alle pessime condizioni sanitarie, peggiorate dai bombardamenti di numerosi ospedali gestiti dalla cooperazione internazionale. La grave difficoltà nel portare aiuti attraverso le strutture sanitarie nazionali e internazionali rappresenta uno dei problemi principali di un territorio nel quale stanno ricominciando a emergere malattie quasi dimenticate in Occidente. Secondo Roberto Scaini, di Medici Senza Frontiere, che è stato a capo dell’équipe medica dell’ospedale di Haydan, nel nord dello Yemen, ormai il Paese «è in caduta libera».
Quanto è durata quest’ultima missione di Medici Senza Frontiere? Quali erano i principali compiti?
«La missione dell’ospedale di Haydan è cominciata a metà febbraio. Peraltro Haydan è un po’ paradigmatico per la situazione in Yemen, perché è un ospedale che Medici Senza Frontiere sosteneva già dal 2015, l’ospedale è stato bombardato dopo il 2015, quindi chiaramente le attività sono state sospese, poi sono ricominciate, letteralmente, fra le macerie. Abbiamo dovuto lavorare con una gestione a distanza, quindi venivano pagati gli stipendi del personale e venivano fornite quelle che sono le strumentazioni di base e i farmaci. Trovandomi spesso nel Paese come coordinatore medico di tutte le attività sono poi tornato a visitare Haydan, ho visto qual era la situazione e abbiamo fatto la proposta di ritornare con un supporto più concreto e più diretto; a quel punto si è aperta questa nuova missione che era destinata a riaprire l’ospedale, quindi mi sono recato ad Haydan con un’équipe di piccole dimensioni, soprattutto per motivi di sicurezza, e nel giro di 40 giorni siamo stati in grado di riaprire un reparto di maternità e di pediatria che attualmente sta lavorando 24 ore al giorno, aperto tutti i giorni della settimana, con un forte impatto in una zona dove non esiste alcuna struttura medica».
Prima ha detto che la situazione di Haydan è paradigmatica. Che cosa intende?
«In questo luogo si vedono un po’ tutti gli elementi della guerra che si sta consumando oggi in Yemen, prima di tutto il fatto che l’ospedale sia stato bombardato. Già questo dovrebbe far sorgere qualche interrogativo: perché si bombarda un ospedale?
Dall’altra parte, anche quando un ospedale non viene bombardato, non ci sono comunque più soldi per pagare gli stipendi del personale che lavora nell’ospedale stesso, e quando ci sono i soldi non ci sono più i farmaci, perché le medicine non arrivano più all’interno del Paese per varie dinamiche dirette e indirette, dall’embargo alla difficoltà dello Stato di reperire farmaci. È un Paese in caduta libera».
Haydan si trova a nord, in un’area controllata dai ribelli Houthi, che si oppongono alla coalizione a guida saudita. Esiste un interlocutore per chi opera sul territorio?
«Sì, direi che il dialogo c’è ed è fondamentale quando operiamo sul terreno. Anzi, mi preme dire che il dialogo c’è con tutte le parti in conflitto, questo anche per cercare una garanzia di sicurezza. È anche per questo che fa ancora più specie quando gli ospedali e le strutture sanitarie in genere vengono colpite, perché non lavoriamo in segreto, anzi: gli ospedali sono ben segnalati, le coordinate vengono fornite a tutte le parti in conflitto proprio per assicurare quella neutralità che non è solo una sicurezza per noi come personale di Medici Senza Frontiere, ma è la sicurezza dei pazienti che vengono ricoverati o che hanno accesso a ospedali o strutture sanitarie. Il problema è che gli interlocutori, almeno quelli governativi, oggi non hanno più il potere di portare avanti un’infrastruttura sociale come appunto il sistema sanitario».
Il fatto che si parli così poco del conflitto in Yemen ci dice molto su alcune dinamiche dell’informazione, ma non solo: è possibile che l’attenzione sia così bassa perché dallo Yemen non si è generato un flusso di profughi verso l’Europa?
«Può essere uno dei motivi. Mi viene sempre da sospettare che quando non si accendono troppe luci e si rimane al buio, si è sempre autorizzati a fare quello che si vuole, quindi spegnere la luce rende il tutto un po’ più comodo, ovviamente non per noi. È vero, dallo Yemen la gente non scappa e se uno sta a vedere il perché è abbastanza complicato. Culturalmente il fatto di lasciare le proprie case quando ci sono situazioni di difficoltà non è molto accettato, però va anche ricordato che oggi scappare dallo Yemen è pressoché impossibile. C’è poi una dimensione geografica: se guardiamo alla mappa dello Yemen, vediamo che a nord e a est è circondato da Paesi che fanno parte della coalizione in conflitto, quindi l’Arabia Saudita e l’Oman, mentre dall’altra parte c’è un mare molto difficile da attraversare. Anzi, lo Yemen oggi riceve flussi migratori di persone che scappano dal Corno d’Africa, e questa è una cosa che dovrebbe far riflettere molto. Il fatto che somali ed eritrei cerchino salvezza in un Paese che è in conflitto è davvero qualcosa di amaro».
A oggi esistono prospettive di pace?
«Il conflitto di per sé è abbastanza lento. È intenso, però è anche piuttosto stagnante. Le linee del fronte sono immobili ormai da un certo tempo, anche perché il territorio yemenita non è pianeggiante, ma caratterizzato da montagne piuttosto alte e impervie, e quindi le posizioni tendono a cristallizzarsi anche in base alla geografia. La speranza è che si arrivi a una pace, però sembra piuttosto distante, anche perché i colloqui in questa direzione sembrano non esserci o quando ci sono portano continuamente a risultati nulli, cioè al solito “cessate il fuoco” di 10 giorni e poi alla ripresa degli scontri».
Questa situazione congelata quali conseguenze ha sulla popolazione civile?
«Lo Yemen è da molti anni il paese più povero di tutta la Penisola arabica, infatti eravamo già presenti nel paese prima del conflitto e oggi è in caduta libera. Lo potrei paragonare a un sasso che viene lanciato da un profondo burrone, perché il conflitto ha portato al collasso completo della situazione economica e quindi oggi i morti non sono più solo quelli diretti dei bombardamenti, degli scontri a fuoco, ma sono persone che non hanno più accesso a quelli che sono i beni primari per sopravvivere. Mi basta un solo esempio: se un paziente soffre di un semplice diabete, oggi trovare dell’insulina, un farmaco di per sé piuttosto banale e neanche troppo costoso, è pressoché impossibile, e questo paziente morirà di diabete. Spesso quando si fa il conto di morti dovuti a una guerra non vengono conteggiate queste vittime, ma questo è un errore, perché invece è facile capire come queste siano vittime, seppure in maniera indiretta, della guerra che è in corso. Questa situazione l’abbiamo di fronte agli occhi tutti i giorni: la malnutrizione, oppure il ritorno di epidemie quali il colera, che è tornato in modo significativo lo scorso ottobre, oppure il morbillo, che è ritornato fuori. Ecco, alle nostre latitudini il morbillo fa un po’ sorridere come malattia, ma in quei paesi è spesso causa di morte e purtroppo non ci sono più le vaccinazioni, quindi tutto quello che è banale per noi e non è neanche una bomba, che cade dal cielo ed esplode, diventa causa di morti che sarebbero evitabili. La pace di cui si parlava prima è a questo punto l’unico fattore che potrebbe invertire o fermare questa caduta libera, ma quale sia il futuro è difficile da dire».
Immagine: di Ahron de Leeuw, via Flickr
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