Ovvero La Drammatica Condizione Dell’animo Umano E La Vittoria Della Croce (Mt15:10-20; Rom7: 14-25)
Nel 1886 lo scrittore scozzese Robert Luois Stevenson (1850-1894) scrisse il celebre romanzo “Lo strano caso del dottor Jekill e del Signor Hyde, uno dei più grandi classici della letteratura mondiale, a cui il cinema, il teatro e la televisione hanno prestato particolare attenzione( basta ricordare ad esempio il film “Il Dottor Jekill e Mr Hyde, diretto ne 1941 daVictor Fleming, che vede protagonista l’indimenticabile Spencer Tracy e il musical “Jekill e Hyde” a Broadway nel 1997 con le musiche di Frank Widhorn, mentre sulla RAI il Quartetto Cetra ha musicato nel 1964 in chiave parodistica le storie di questo libro). Esso narra la terribile scoperta del Dottor Jekill, durante i suoi studi sulla psiche umana e le riflessioni morali sulla propria condotta, della presenza di una duplice natura nell’uomo. Attraverso alcuni esperimenti chimici ottiene una porzione dagli effetti straordinari. Essa destruttura l’unità dell’essere umano e conferisce esistenza propria e distinta alle inclinazioni nascoste ma presenti nell’animo. Il Dottor Jekill pone se stesso come cavia, sperimentando su di sé la porzione, subendo una terrificante trasformazione, facendo emergere la natura umana votata al male. sotto l’effetto della droga egli assume un diverso corpo e una diversa psiche: Mister Edward Hyde. (forse derivante dal verbo inglese to hide che significa “nascondere”) Con l’assunzione di una seconda porzione, si normalizza il suo stato naturale, nascondendo di nuovo la natura malvagia. Le due identità sono separate sia nell’aspetto fisico che nelle dinamiche psichiche. Da un lato c’è il Dottor Jekill, uomo ben educato, di bella prestanza fisica, e di nobili principi morali, dall’altro c’è Mister Hyde un essere deforme e mostruoso, con le braccia corte e le mani pelose, incline gioiosamente al male, alla propria soddisfazione egoistica, sfrenata violenta: un essere pericolosamente asociale.
L’epilogo del romanzo è tragico: l’amico del Dottor Jekill, Utterson e il suo domestico Poole, dopo aver sfondato la porta del laboratorio, trovano il corpo esamine del Dottor Jejkill-Mr Hyde suicidatosi con l’acido cianidrico.
Stevenson con questo romanzo sembra interessato ad indagare sull’ambiguità dell’animo umano e di analizzare il male.
Se noi volessimo trasportare le intuizioni di Stevenson a proposito della brutalità della natura umana (in realtà l’analisi di Stevenson sottolinea la conflittualità fra due dimensioni, riconoscendo che l’uomo non sia unico bensì possiede una duplice natura, quella pervasa dalla bontà e l’altra dalla malvagità, drammaticamente in contrasto tra di loro tesi a prendere il dominio dell’ individuo) sul piano di una antropologia cristiana, coglieremmo indubbiamente delle analogie. Innanzitutto, la conflittualità tra la nuova natura in Cristo e la vecchia natura, quella assunta dalla nascita. La differenza sostanziale tra il dualismo della natura umana stevensoniana e quella cristiana sta nel fatto che per Stevenson nell’uomo fin dalla nascita coesistono due opposte nature e personalità, quella buona e quella malvagia, mentre per il pensiero cristiano l’uomo “carnale”, come direbbe Paolo, ha un’unica natura, quella irreversibilmente malvagia nella sua relazione con Dio, ossia l’uomo è incapace di modificare la sua natura insanabilmente maligna: “…Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene… (Rom. 7:18) Se l’uomo senza Cristo riesce ad addomesticare quello che lui veramente è, ossia la sua indole malvagia, ciò è dovuto innanzitutto grazie alla sua coscienza, che porta in sé la legge di Dio. E’ lo stesso Paolo che lo testimonia: “… Quando i pagani, che non hanno la legge, sono legge a se stessi, essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano e ora li difendono…”(Rom 2:14-15)
Inoltre, la malvagità umana è contenuta grazie alle leggi umane e alle convenzioni sociali. Resta comunque il fatto che l’uomo rimane nello stato naturale in cui egli veramente è, ossia “homo homini lupus” come direbbe il filoso inglese Thomas Hobbes, “l’uomo è lupo per l’uomo” o “Lupus est homo homini” come affermerebbe il commediografo latino Plauto, che sono aforismi che racchiudono efficacemente una antica e amara concezione della condizione umana, che è fondamentalmente egoistica, tesa ad agire per soddisfare l’istinto di sopravvivenza e quello della sopraffazione.
Sono drammaticamente espressive le stesse parole di Gesù, leggendo il testo di Matteo 15:10-20. Esso è preceduto da quello in cui è registrata l’ennesima disputa con gli scribi e i farisei, ossia con i dirigenti del Giudaismo contemporaneo di Gesù. Il luogo della disputa è Gennesaret, mentre la materia del contendere riguarda il problema dell’impurità. Ciò che è rivendicato dall’autorità ufficiale di Gerusalemme è la tradizione degli antichi, che era peraltro una sorta di difesa della Torah. (le scrupolose prescrizioni contenute nella tradizione orale avrebbero dovuto impedire le trasgressioni della torah scritta) L’uso della lavanda delle mani va inteso all’interno delle leggi di purità sacerdotale, ossia i sacerdoti nel tempio dovevano essere ritualmente puri nell’adempimento del loro servizio. Questa pratica sacerdotale fu trasferita dai Farisei nella vita domestica. La mensa nella casa è come la mensa del Signore nel tempio di Gerusalemme, adempiendo formalmente e letteralmente il comandamento: “Voi dovete essere per me un regno di sacerdoti e un popolo santo”. Il rimprovero dei Farisei rivolto a Gesù, riguardante l’inadempienza dei discepoli dei doveri rituali della lavanda delle mani è la constatazione polemica che i discepoli di Gesù rompono con l’intero complesso della tradizione degli antichi. La replica di Gesù ai venerabili capi religiosi è perentoria ed è caratterizzata da un aforisma: “Non quello che entra nella bocca contamina l’uomo, ma è quello che esce dalla bocca che contamina l’uomo”, anche se essa formalmente rivolto alla gente che è stata appositamente convocata. E’ una espressione letterariamente plastica quella pronunciata da Gesù che trascende l’atto esteriore e l’osservanza letterale delle regole per fare risaltare ciò che viene dal cuore. Le parole di Gesù dirigono l’uditore e il lettore a considerare ciò che è veramente l’uomo in se stesso, e non quello che potrebbe essere in relazione a quello che lo circonda, l’uomo è brutalmente dominato dal peccato che determina quello che è veramente, ossia un essere insanabilmente maligno. Il male che scaturisce dal cuore dell’uomo è sintetizzato per mezzo di un elenco di vizi in sette punti., che rimandano alla “Tavola della Legge. Gesù inizia coni i pensieri malvagi (gr. dialoghismoi poneroi), prosegue con gli omicidi (gr. fonoi), gli adulteri (gr. moicheiai), le prostituzioni (gr. porneiai), i furti (gr. klopai), le false testimonianze (gr. pseudomarturiai), le bestemmie (gr. blasfemiai). In definitiva, il lettore o l’uditore ha a che fare con uno dei brani più dirompenti dell’Evangelo. E’ rilevante un duplice aspetto: innanzitutto, la critica della religione da parte dei cristiani per amore della fede. ll Vangelo attua una ferrea critica ai riti divenuti vuoti e discutibili.
In secondo luogo, l’Evangelo sottopone ad una critica radicale la tradizione, la quale non può svincolarsi, rendendosi autonoma dalla fonte da cui prende forma. Le tradizioni possono essere ritenuti pericolosamente più importanti della fonte da cui traggono origine.
Il tema dell’indomabilità del peccato presente nell’essere umano che lo rende insanabilmente malvagio è ripreso da Paolo, che, ribadisco, è il più grande interprete dell’insegnamento e dell’opera di Gesù. Nella lettera ai Romani, che probabilmente è la lettera più “teologica” del suo epistolario, nel senso che essa racchiude in maniera sistematica la poderosa dottrina della salvezza per grazia mediante la fede. Questa lettera ha influenzato, determinando la conversione, alcuni degli uomini di cultura più influenti del pensiero umano, come Agostino di Ippona, uno dei più grandi teologi e filosofi di tutti i tempi. egli lesse il brano seguente: “ Non vivete tra festini e sbornie, non tra alcove e impudicizie, non tra contese e gelosie, ma rivestitevi del nostro Signore Gesù Cristo… (Rom.13: 13b-14) Agostino affermò nelle sue Confessioni: “ Né più volli leggervi avanti né v’era alcuna necessità. Infatti, subito che ebbi finito di leggere questo pensiero, come se un lume di certezza si fosse diffuso nel mio cuore, tutte le tenebre della mia incertezza si dissiparono. (Conf. VIII:29)
Tra il 1515 e il 1516 Martin Lutero, monaco agostiniano e professore di Sacra Scrittura all’Università di Wittemberg, tenne un corso di esposizione dell’epistola di Paolo ai Romani. Nel preparare le sue lezioni valorizzò profondamente la dottrina paolina delle giustificazione per fede: “…Desideravo ardentemente come l’epistola di Paolo ai Romani e niente me lo impediva salvo un’espressione “la giustizia di Dio”, perché io la prendevo che significasse quella giustizia per la quale Dio è giusto e agisce con giustizia nel punire gli ingiusti… Vi riflettei giorno e notte fino a che… afferrai questa verità: la giustizia di Dio è la giustizia per la quale, tramite la grazia e l’assoluta misericordia, egli ci giustifica per fede. Al che mi sentii rinato e mi pareva di essere arrivato in paradiso attraverso porte spalancate.. Tutta la Scrittura acquistò un nuovo significato, e laddove prima “la giustizia di Dio mi aveva riempito di ripugnanza, ora divenne per me indicibilmente gradevole. Questo passo di Paolo divenne per me un cancello aperto sul cielo”.
Il 24 maggio del 1738 John Wesley, partecipando malvolentieri ad una riunione cristiana, l’officiante stava leggendo la prefazione di Lutero all’Epistola ai Romani. Scrisse Wesley: “ Circa un quarto d’ora prima delle nove, mentre l’officiante stava descrivendo il cambiamento che Dio opera nel cuore dell’uomo mediante la fede in Cristo, sentii il mio cuore stranamente riscaldato. Sentii che andavo riponendo la fiducia per la mia salvezza in Cristo e in Cristo soltanto, e fui certo che egli aveva lavato i miei peccati , i miei ; e che mi aveva liberato, me, dalla legge del peccato e della morte”. John Wesley fu l’artefice del risveglio evangelico del XVIII secolo in Inghilterra.
Il testo di Romani 7:14-25 fa risaltare il dramma di un uomo consapevole della presenza e della potenza del peccato che domina la sua vita; il peccato è visto come un despota contro i cui decreti l’uomo combatte invano: “ Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rom 7:18 b) L’uomo religioso riconosce che la legge di Dio è buona, si delizia in essa, è riconosciuta come “santa, giusta e buona”. Vuole viverla ma è incapace di attuarla: “ Infatti, acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra”. (Rom. 7:22-23) Siamo di fronte a quella lotta drammatica tra il bene e il male di cui ha parlato Stevenson nel suo scritto. Paolo dice: “ Io non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio”. Noi troviamo un parallelo riguardante questa frase nei classici latini, come Orazio: “quae nocuere sequar, fugiam quae profore credo” (“perseguo le cose che mi hanno nociuto, rifuggo dalle cose che credo mi facciano bene”) o come Ovidio: “Video meliora proboque; deteriora sequor”. (“Vedo e approvo ciò che è meglio, ma seguo ciò che è peggio”) Quello che Paolo drammaticamente rileva è la voce della coscienza che, nel condannare il suo fallimento nell’osservare la legge, reca testimonianza alla legge, la quale è santa, giusta e buona”. La scoperta drammatica dell’uomo religioso e, in generale, di ogni uomo del proprio decadimento spirituale porta inevitabilmente ad una profonda crisi spirituale: “Oh misero me! Chi mi libererà da questo corpo di morte”. (Rom 7:24)
Il protagonista del drammatico romanzo di Stevenson, il dottor Jekill-Mr Hyde si suicida, perché non ha trovato un motivo valido per vivere, che avrebbe dato senso alla sua vita, essendo in balia di questa forma dicotomica della persona L’uomo tragico di Rom. 7: 14-25, personificato da Paolo, invece si lascia andare ad un gioioso, poderoso grido di trionfo: “Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”, il quale si rivela essere il Liberatore della condizione tragica in cui l’uomo si trova, un essere spaventevole e mostruoso, che nasconde la sua vera natura, indossando i panni di un distinto signore di salotto, ben educato e di nobili sentimenti. Per quanto l’uomo possa nascondersi dietro la figura fittizia del gentiluomo, dedito a perseguire i più alti e nobili ideali di amore, pace, giustizia e solidarietà, verrà il momento in cui dovrà gettare la maschera e gridare con incontenibile dolore: “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” e decidere quale strada imboccare, quella tragica che conduce all’autolesionismo o quella che apre le porte verso la libertà e il riscatto.
“…Il Signore è lo Spirito; e dov’è lo Spirito del Signore lì c’è libertà”
Paolo Branè | Notiziecristiane.com
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