La crisi umanitaria al confine greco-turco mostra l’incapacità dell’Europa di fare la propria parte. Restano le chiese e la società civile a battersi per mutare rotta.
Gli eventi si susseguono rapidi fra il confine di terra turco-greco e la striscia di mare che separa l’Anatolia dalle isole dell’Egeo. Il manovratore Recep Tayyip Erdoğan usa come pedine i milioni di rifugiati presenti sul suo territorio, bloccati dallo scellerato accordo del 2016 siglato proprio con le istituzioni europee, al prezzo di sei miliardi di euro pagati ad Ankara da un’Europa terrorizzata dall’idea di fare la propria parte nell’accogliere alcune decine di migliaia di disperati in fuga dal dramma siriano, dal buco nero afgano, dall’Iraq senza futuro.
I volti stanchi e spaventati, i pianti di donne, uomini e di tanti bambini che rimbalzano in questi giorni sui nostri schermi, letteralmente schiacciati lungo le linee di frontiera, sono un pugno nello stomaco e insieme una condanna dell’incapacità dell’occidente di gestire una situazione di cui è in buona parte responsabile.
L’inerzia in Libia, l’incapacità di leggere e di reggere le trame russe o americane in Medio Oriente, l’ostinazione nel considerare emergenziale l’evidenza dei flussi migratori, trattati sempre e soltanto come un pericolo e mai come un’opportunità, fanno dell’Europa un attore che senza vergogna giunge a rinnegare i principi su cui si è fondata.
Lo scorso 4 marzo la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha ringraziato di persona il premier greco Kyriakos Mitsotakis per il contenimento alle frontiere, sottolineando che «La Grecia è lo scudo dell’Europa». Solo due giorni prima un bambino affogava al largo dell’isola di Lesbo e un video diventato virale mostrava la Guardia Costiera greca sparare contro un barcone di persone inermi, mentre sul fiume Evros si contavano altre vittime e migranti disperati venivano denudati e picchiati dai militari greci. Interventi avallati qualche giorno dopo dal portavoce della Commissione europea Eric Mamer, che ha ammesso l’utilizzo delle armi da fuoco «a seconda dalle circostanze». Con una manciata di parole, i massimi rappresentanti di Bruxelles hanno concesso la loro benedizione alla brutalità delle forze armate nei respingimenti e dato il via libera agli estremisti di destra che a Lesbo e a Chios attaccavano operatori umanitari e giornalisti, cercando di fare terra bruciata della rete di sostegno faticosamente costruita dalle ong in questi anni.
E ancora non è tutto. Il governo greco, con una misura straordinaria, ha deciso che dal 1° marzo non si potranno più avanzare richieste d’asilo per un mese, violando in questo modo la Convenzione di Ginevra e la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Chi è riuscito nonostante tutto ad approdare in questi giorni nelle isole greche verrà deportato in un centro chiuso nel nord del paese, in attesa di improbabili rimpatri, mentre i 40mila disperati che da mesi, se non addirittura anni, languiscono nei centri di transito sono in preda al panico, in attesa di capire che cosa ne sarà di loro. Non lo sanno i rifugiati, non lo sanno gli operatori umanitari e non lo sanno forse nemmeno i massimi rappresentanti di Bruxelles, che non a caso hanno sorvolato in elicottero e poi si sono tenuti a debita distanza dal confine terrestre. Guardare finalmente negli occhi queste persone, non considerarli numeri da (non) gestire ma esseri umani, rischia di essere un’esperienza troppo dura per i loro colletti inamidati.
È un punto di non ritorno.
Rimangono le Ong a tentare di rendere meno drammatica, e meno vergognosa, l’idea di Europa che si presenta agli occhi di chi pensava di essersi lasciato alle spalle l’abisso del male e si ritrova in un inferno ancora peggiore.
A urlare il proprio no rimangono anche le chiese – è di questi giorni l’appello della Federazione delle chiese evangeliche in Italia all’apertura di corridoi umanitari dalla Grecia – oltre all’Ekd, la Chiesa evangelica in Germania, e a centinaia di sindaci tedeschi, che si sono detti aperti ad accogliere i profughi. Stesse disponibilità giungono dalla diaconia valdese e da quella svizzera. Intanto una staffetta di volontari e attivisti italiani si sta organizzando – con estrema difficoltà, viste anche le limitazioni imposte dall’emergenza Coronavirus – per garantire una presenza fisica e di aiuto a Lesbo, ancora sotto lo scacco delle aggressioni di gruppi di estrema destra.
Come insegnano molte lotte in questi anni, infatti, il presidio dei territori è forse l’unica arma rimasta alla società civile, e alla stampa, per impedire che l’orrore si compia. Nel momento del silenzio dell’Europa, ricordiamo che dove le persone comuni se ne vanno e si lascia il campo ai violenti, restano solo le Srebrenica.
Foto di Stefano Stranges
di Claudio Geymonat e Federica Tourn | Riforma.it
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