L’Italia che rifiuta la vita

img-_innerArtFb-_culle-vuote_2Il dato avrebbe meritato ampia trattazione e spazi adeguati perché, di per sé, è clamoroso; ma, si sa: nel nostro tempo, le cose futili, in importanza, superano tutto. Così, basta dare una scorsa ai giornali per essere sommersi da San Remo e i suoi annessi, mentre il record negativo di nascite nel 2014 (dall’Unità d’Italia) veniva confinato in posizioni scarsette, per sparire, dai motori di ricerca, proprio del tutto.

Riassumendo: secondo l’Istat, i nati, l’anno scorso, sono stati 509mila (5mila in meno rispetto ai 514.308 del 2013), a fronte di 597mila morti (4mila in meno del 2013); il numero medio di figli per donna, inoltre, è stato pari a 1,39 (e, come è noto, è 2 il minimo di figli per coppia necessario perché la popolazione non si estingua). Sono numeri che contengono gravi implicazioni. Bastano poche considerazioni per comprendere quelle più immediate di natura economica: il Paese sta invecchiando. E sta invecchiando male. È ancora l’Istat, nel suo rapporto annuale, a rilevare come nei prossimi 30 anni, se persisteranno le dinamiche attuali, assisteremo ad un radicale capovolgimento della piramide demografica: nel 2041, la proporzione di over 65 ogni 100 giovani con meno di 15 anni sarà più che raddoppiata, passando, al Sud, da 123 a 278, mentre al Centro-Nord da 159 a 242. Un problema serio, che metterà a repentaglio la sostenibilità, anzitutto, del sistema previdenziale, tenuto conto del fatto che, già oggi, l’Italia è il Paese europeo la cui spesa pensionistica è in assoluto la più alta (272,74 miliardi di euro nel 2013, pari al 16,85% del Pil).

Va da sé, inoltre, che un Paese che non fa figli erode la propria forza lavoro, perdendo capacità di produrre ricchezza: il rapporto tra la popolazione sopra i 65 anni e quella in età attiva (15-64 anni) era pari, al 1° gennaio 2015, al 33,7%. Nel 2011 (ultimi dati disponibili), le proiezioni indicavano, per il 2065, una crescita quasi doppia, pari al 59,7%. Tali previsioni, tuttavia, non inglobavano il recente peggioramento dell’evoluzione demografica che, oltretutto, non sarà neppure bilanciata dagli afflussi migratori: nel 2014, infatti, gli stranieri giunti in Italia per viverci sono stati 113mila, un decimo rispetto al 2013, quando furono 1 milione e 184 mila.

Le radici del problema sono lontane e basti ricordare che, esaurito il fenomeno dei baby-boomer, attorno alla seconda metà degli anni ’70 le crescite sono calate drasticamente in coincidenza con l’introduzione della legge sul divorzio. Ma in questa fase incide non poco anche la crisi economica: le nascite erano calate progressivamente fino a giungere a 526mila unità nel 1995. Da allora, hanno ripreso a crescere per poi tornare a contrarsi dal 2008, anno di inizio della crisi che si è declinata in precarietà e incertezza nel futuro. La disoccupazione giovanile (pur essendo calata di ben un punto rispetto alla precedente rilevazione) si attestava, a dicembre, sul 43%, più del doppio della media Ue, mentre circa 7 milioni di lavoratori percepiscono mediamente meno di mille euro al mese.

Tutto ciò contribuisce a far sì che le giovani coppie decidano di rinviare la nascita di un figlio in attesa di tempi migliori. Su tutto, pesa l’accanimento dello Stato. Il fisco italiano è, sostanzialmente, iniquo: disconosce la famiglia quale soggetto sociale e tassa in base alla capacità reddituale, senza tener conto del numero dei figli. Il che, val la pena ricordarlo, oltre ad essere antieconomico, è contrario anche alla Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva»; è chiaro che la capacità contributiva di chi ha figli è, in ragione del loro mantenimento, ridotta rispetto a chi non ne ha. Aggiungiamo che l’Italia, al netto del bonus bebé da 80 euro (che, in ogni caso, viene erogato per le famiglie con Isee inferiore ai 25mila euro, ovvero ad una platea piuttosto ristretta) si colloca per risorse destinate alla famiglia (in termini di sostegno al reddito, asili nido, strutture residenziali ecc…) al penultimo posto tra i Paesi europei, e che l’imposizione fiscale ha raggiunto il 42,6% del Pil, contro il 34,1% della media Ocse, e abbiamo un quadro abbastanza completo; dal punto di vista economico, almeno.

C’è un dato macroscopico, originato da ragioni essenzialmente culturali e la cui correlazione con il calo delle nascite, curiosamente, non è stata rilevata da alcun istituto o osservatorio: nel 2013, secondo gli ultimi dati del ministero della Salute, sono state notificate dalle Regioni 102.644 interruzioni volontarie di gravidanza. Certo, il calo delle nascite del 2014 non è un dato commensurabile con gli aborti prodotti nell’anno precedente; tuttavia, è sufficiente considerare i nati nel 2013 (514.308), i nati e le Igv (Interruzioni volontarie di gravidanza) del 2012 (rispettivamente, 534.186 e 107.192), per ipotizzare che, verosimilmente, il numero di Ivg del 2014 non si discosterà significativamente dall’anno precedente, ed ecco emergere un rapporto inquietante: negli ultimi anni, la proporzione tra aborti e nascite è stata (circa) 1 a 5.

Nel frattempo – perché è giusto parlare ancora di San Remo –, una famiglia con 16 figli viene sbeffeggiata dal pubblico in sala, mentre la drag queen barbuto Conchita Wurst è salutato come il nuovo eroe dei diritti civili.

di Carlo Tiagrandi

Fonte: http://www.lanuovabq.it


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