Il Regno Unito non è più un posto sicuro per i bambini. In un’udienza di emergenza, durata poche decine di minuti e svoltasi ieri pomeriggio, tre giudici della Corte Suprema hanno confermato la condanna a morte del piccolo Charlie Gard, il bambino di dieci mesi affetto da una patologia rarissima, autorizzando i medici del Great Ormond Street Hospital di Londra a staccare il respiratore che gli fa da supporto vitale, contro la volontà dei suoi genitori che vorrebbero portarlo negli Stati Uniti per una cura sperimentale che ha già avuto successo su almeno due bambini con una malattia simile (come testimonia questo splendido video).
Ma non gli è stato permesso, perché Charlie, da quando a otto settimane ha iniziato a manifestare i sintomi della malattia, è diventato prigioniero dell’ospedale londinese, dove i medici hanno presto iniziato a dire che bisognava lasciarlo “morire con dignità”. E i giudici hanno assecondato questa scelta mortifera, pur sapendo della ferma speranza dei genitori Chris e Connie e della loro raccolta fondi – 1,3 milioni di sterline da oltre 83 mila donatori – che consentirebbe tranquillamente di proseguire le cure di Charlie in America.
“Come possono farci questo? Stanno mentendo. Perché non dicono la verità?”, ha detto la mamma scoppiando in lacrime subito dopo la decisione della Corte Suprema, che è arrivata addirittura a negare lo svolgimento di un’udienza completa per rivedere meglio il caso di questo piccolo Cristo innocente, condannato perché è la risposta di senso al dolore che il mondo rifiuta di ascoltare.
Tre corti su tre, con pareri uniformi e talmente rapidi da restituire un quadro se possibile ancora più inquietante, hanno sentenziato che è nell’interesse del bambino morire, rifiutando di dargli qualsiasi possibilità di sopravvivenza. Per l’esattezza, la Corte Suprema ha chiesto ai dottori di continuare a dare il supporto vitale a Charlie per 24 ore (che scadrebbero alle 17 di oggi pomeriggio, ora inglese, nel più macabro dei conti alla rovescia) per consentire alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di considerare un eventuale ricorso dei genitori, che i legali hanno nel frattempo annunciato di aver fatto. L’interruzione delle cure per il momento dovrebbe perciò essere stata scongiurata e adesso si dovrà attendere il pronunciamento della Cedu, che si spera possa ribaltare l’ingiustizia disumana delle corti inglesi.
Ad ogni modo, com’era già di per sé assurdo dover arrivare alla sentenza di una corte, e perfino quella di grado più alto a livello nazionale, per dire che un bambino di 10 mesi può o meno continuare a vivere, lo è a maggior ragione dover ricorrere a un tribunale sovranazionale per affermare un principio così elementare come il diritto alla vita. Un principio sul quale si fonda la stessa convivenza umana e, negato il quale, perde di senso qualunque corte di giustizia di questo mondo, destinata a giudicare arbitrariamente secondo gli interessi dei più forti, a confondere il bene e il male, a sacrificare gli ultimi, i più indifesi, sull’altare di un’ideologia che pretende di sostituirsi a Dio, stravolgendo la morale secondo le proprie convenienze.
Abbiamo detto che il Regno Unito non è più un posto sicuro per i bambini, ma è chiaro che la considerazione andrebbe estesa a tanti altri Paesi, compreso il nostro, e retrodatata agli anni ’60-’70, ossia alla comparsa generalizzata nell’Occidente delle leggi contro la vita umana e la famiglia, primo baluardo contro le prepotenze del potere che ha gioco facile nel manovrare a suo piacimento l’individuo isolato.
Tra l’altro, per effetto della legge inglese sul fine vita, se i genitori fossero stati d’accordo con i medici, a quest’ora Charlie sarebbe morto da un pezzo: morto per omicidio. Parola che i cultori dell’eutanasia cercano di nascondere, ora stracciandosi le vesti, ora fingendo compassione, ora minacciando querele. Ma è di omicidio che si tratta. Come quello che per un soffio ha evitato di recente la piccola Marwa in Francia, anche lei veramente amata dai genitori, che hanno fatto ricorso contro la decisione dei medici di ucciderla, riuscendo a spuntarla dopo due gradi di giudizio.
Ed è sempre l’omicidio quello che dovranno sperare di evitare bambini, minori e incapaci qualora il Parlamento italiano dovesse approvare il disegno di legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (un ddl ipocrita già dal titolo perché non nomina mai l’eutanasia, pur legalizzandola nei fatti), che come questo quotidiano ha già spiegato introdurrebbe sia l’eutanasia consensuale sia quella non consensuale: se il fiduciario e il tutore dovessero essere d’accordo sulla volontà di dare la morte al paziente – per esempio un neonato o un disabile mentale – non ci sarebbe nemmeno bisogno di ricorrere ai giudici, perché l’atto eutanasico (omicidio) sarebbe considerato del tutto legale. Legale, sebbene profondamente ingiusto.
Eppure, la cultura dominante continua a venderci lo slogan dell’autodeterminazione, continua a ingannarci dicendo che lo Stato deve lasciare libero l’individuo di fare quel che gli pare, come se fosse dio di se stesso e slegato da qualunque legame con la comunità, in una fasulla libertà senza limiti, che spalanca le porte del male aumentando a dismisura le possibilità di compierlo, con tutte le garanzie della legge.
Ma in realtà, come questo e tanti altri casi recenti dimostrano, l’unico modo libero di “autodeterminarsi” è quello che la cultura dominante vuole, che prima concede la “libertà” di uccidere e poi obbliga a uccidere il più debole, calpestando perfino il diritto di due genitori di provvedere alle cure del loro bambino. È una cultura della morte sempre più pervasiva che rifiuta di confrontarsi con la sofferenza, nega che la vita di quaggiù è un dono in vista della ricompensa celeste per chi riconosce di avere un Padre che lo ama e di aver bisogno di Lui per essere felice. Una cultura della morte che rigetta ogni speranza, non solo quella ultraterrena, ma la stessa speranza in quella scienza umana in cui a corrente alternata i suoi fautori dicono di credere, ignari che la scienza viene da Dio, lo stesso Dio che rifiutano di accogliere nella loro vita.
A Charlie, la cui dignità incommensurabile deriva dal suo essere persona e non certo dal suo grado di salute, stanno cercando di togliere anche la speranza di vivere secondo le possibilità che la medicina gli dà.
Don’t take my sunshine away, “non portarmi via la mia luce del sole”, è il sottofondo di uno dei tantissimi video che sono stati dedicati in questi mesi a questa dolcissima creatura. Alla fine del filmato si vedono gli occhioni chiari e risplendenti di Charlie, segno tangibile di una testimonianza d’amore eterno che le tenebre non riusciranno mai a oscurare. Intanto, forza piccolo, tante persone che ti amano stanno pregando per te.
di Ermes Dovico | Lanuovabq.it
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