Oggi esce “Trouble no more”, docufilm sul periodo cristiano di Bob Dylan. L’appartenenza religiosa del cantautore fa discutere ancora oggi ma la verità potrebbe stare nel suo «ebraismo messianico».
Un’ipotesi affascinante (e solida) attraversa la lunga carriera di Bob Dylan: un patto con colui che, in un’intervista alla CBS, il cantautore americano definì «Comandante in capo, su questa terra e nel mondo che non possiamo vedere». I cliccatissimi 40 secondi di intervista (imperdibile il malcelato imbarazzo di Ed Bradle, celebre conduttore di “60 minutes”) lungi dall’essere la prova di un patto col diavolo (come da incaute interpretazioni della rete) sarebbero, al contrario, la dimostrazione lampante dell’alleanza del menestrello di Duluth con quel Gesù da cui è stato letteralmente folgorato nel mezzo del suo cammino artistico. Siamo nel 1978, Dylan si lascia convincere dall’attrice Mery Alice Artes, all’epoca sua fidanzata, e da Helena Springs, una sua corista, ad entrare nella Vineyard Fellowship, una chiesa evangelica fondata dal reverendo Ken Gulliksen. Qui riceve il sacramento del battesimo e frequenta un corso di studi biblici. Un corso intensivo: cinque giorni alla settimana, per 6 mesi, Dylan studierà la Bibbia alla “Vineyard School of Discipleship” a Reseda, nel sud della California. Per uno che ha sempre odiato la scuola non è poco. Tra il 1978 e il 1981 Dylan vivrà così la sua avventura umana più folgorante, quella che definì «un’esperienza di rinascita, quando la gloria del Signore mi ha vinto e mi ha innalzato».
Le sue nuove canzoni riflettono immediatamente lo zelo del “born again”, del rinato a Cristo. Il suo fervore marchia a fuoco tre album, quelli della cosiddetta “trilogia cristiana”: Slow Train Coming (1979), Saved (1980) e Shot of Love (1981). Quella del Dylan cristiano è una storia tanto intrigante quanto raccontata in modo parziale: è curioso come nelle cronache del tempo l’aggettivo “controverso” («abbraccio controverso», «conversione controversa») sia quello che ritorna più spesso, anche se, stando alle parole raggianti dello stesso protagonista, sembra invece l’aggettivo meno rispondente al suo animo insolitamente pacificato. Decisamente incisivo, sul punto, è ciò che sul caso Dylan scriverà lo scrittore Steve Turner: «Niente garantisce più disprezzo nei circoli rock ‘n’ roll che abbracciare la fede in Cristo. Voglio dire, paghiamo questi ragazzi per visitare l’inferno e riportarci le diapositive a colori, e qui vanno a scivolare in cielo. È una grave violazione del contratto».
A gettare nuova luce sul periodo “controverso” sono finalmente in arrivo film, dischi e libri. Trouble no more, l’attesissimo docu-film sulla rinascita cristiana di Bob Dylan, sarà presentato in anteprima oggi alla 54esima edizione del New York Film Festival. Molto del prezioso materiale (appositamente restaurato) che accompagna il film è stato considerato per lungo tempo perduto, compresi gli show a Toronto e a Buffalo nell’ultima tappa del tour del ’79-’80. Il docu-film conterrà anche gli ardenti sermoni che Dylan teneva lungo il Gospel Tour, veri e propri inviti alla conversione, affidati dalla regista Jennifer Lebeau al volto e alla voce dell’attore Michael Shannon. Con quest’impeto e autorevolezza Dylan parlava al concerto di Albuquerque (New Messico) il 5 dicembre del 1979: «Vi dissi: “I tempi stanno per cambiare” e così è stato. Vi dissi che la risposta stava “Soffiando nel vento” e così è stato. Ora vi sto dicendo che Gesù sta per tornare, e così sarà! E non esiste altra via di salvezza. Lo so che qui intorno avete un sacco di persone che vi confondono in mille modi tanto che non sapete nemmeno a cosa credere. C’è solo un modo per credere: c’è solo la Via, la Verità e la Vita. Mi ci è voluto molto tempo per capirlo, spero per voi che ve ne serva molto meno».
Oltre il film, sugli “anni del Vangelo” è prevista anche l’uscita di un nuovo libro di Clinton Heylin, che secondo la rivista Rolling Stone è «l’autorità principale del mondo su tutte le cose di Dylan» (Trouble In Mind: Bob Dylan’s Gospel Years – What Really Happened, questo il titolo), nonché la pubblicazione del volume 13 della Bootleg Series di Bob Dylan con cui la Columbia Records sta “coccolando” i dylaniani sparsi nel mondo: cento brani del periodo ‘79-’81 in versione studio e live, 14 dei quali mai pubblicati ufficialmente.
È certo che con la conversione Dylan fece la sua mossa più clamorosa e impopolare: come la “svolta elettrica” del ’65 aveva mortificato i puristi del folk, nel ’79 non furono molti i fan che desideravano dal cantautore americano dischi rhythm and blues e gospel. Ancora meno erano quelli che, nei suoi show, gradivano sentirlo discutere di fede. In un attimo Dylan distrusse l’immagine iconica dell’attivista politico, dell’intellettuale pacifista, del paladino della giustizia. Il realtà il rapporto tra Dylan e l’idea di giustizia ha una coerenza interna che va oltre i mal di pancia di molti dei suoi ammiratori. È la tesi di Alessandro Carrera – docente di letteratura all’Università di Houston (Texas) e autore di molti saggi su Dylan – secondo cui se negli anni ’60 la giustizia per Dylan non poteva non essere incentrata sulla segregazione razziale o la guerra fredda, più avanti il cantautore declinerà il tema della giustizia a livello di relazioni umane. Non solo nei termini dei grandi conflitti sociali, dunque, ma una giustizia che tocca i singoli rapporti umani, quelli che oppongono le persone l’una a l’altra, gli amici agli amici; fino a trasferire la riflessione sul piano più alto: il rapporto tra giustizia umana e giustizia divina.
Per alcuni l’aver percepito un’esperienza pentecostale ancora agli esordi come stravagante ed eccentrica, ha di fatto spinto a mettere tra parentesi il periodo dylaniano della conversione, immaginandolo a sua volta come strambo e comunque passeggero. «Oggi – spiega a tempi.it Brunetto Salvarani, teologo, scrittore e attento conoscitore della parabola umana e artistica di Dylan – non possiamo non essere consapevoli che la piccola chiesa che ha avvicinato Dylan, la Vineyard Fellowship, è parte integrante di un grande Network. Al di là degli accenti, degli stili ecclesiali e liturgici, dal punto di vista dei numeri e dell’influenza gli evangelical rappresentano oggi il più importante movimento non solo cristiano, ma direi religioso dell’ultimo secolo». In effetti il sospetto verso un mondo pentecostale non ancora ben conosciuto e di conseguenza accolto, è un elemento che da solo non riesce a spiegare lo straniamento che attraversò l’Occidente nell’ascoltare dall’ermetico Bob Dylan testi così espliciti, paolini, a volte apocalittici. Eppure con quel nuovo stile tra il R&B e il gospel il cantautore riuscì finanche a conquistare nuove fette di pubblico, tanto che Gotta Serve Somebody, brano dell’album Slow Train Coming, nel 1980 si aggiudicò un Grammy Award per la miglior performance vocale maschile rock dell’anno, ed è a tutt’oggi considerato l’ultimo singolo di successo su larga scala di Dylan. «Quel trascinarsi predatorio dell’apertura, le liriche intrecciate, la voce logora e seducente, l’immensa mancanza di misericordia pelosa nel suo messaggio, il senso di agonia del tutto. Mi trovavo in un bar, l’avevo ascoltata al jukebox e mi guardai in giro, domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell’ascolto», così – su quella Gotta Serve Somebody tradotta e cantata anche da Francesco De Gregori – il rocker australiano Nick Cave.
Complessivamente Slow Train Coming fu un enorme successo commerciale, superando le vendite di capolavori del decennio precedente come Blood on the Tracks e Blonde on Blonde. È ancora Salvarani, docente di Teologia della Missione e del Dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna a spiegare a tempi.it il perché recondito di tanta resistenza al “nuovo” Dylan da parte della stampa. «In quel periodo, ormai quasi 40 anni fa, una gran parte della variegata galassia del mondo evangelicale si era apertamente collegata alla presidenza e alla “dottrina Reagan”. Alcuni di coloro che avevano amato il primo Dylan, il ventenne antimilitarista, hanno avuto una reazione molto preoccupata per quello che con una categoria politica hanno considerato un tradimento a destra. Le cronache raccontano che questa è stata la reazione di tanti suoi fan: ci sono descrizioni di concerti in cui la gente protestava, avrebbe voluto ascoltare Like a Rolling Stone, Mr Tambourine Man, Blowing in the wind, tutte canzoni che Dylan non cantava più».
In realtà il rapporto con la redenzione, il clima visionario e profetico e il legame con la Bibbia erano presenti già prima della svolta cristiana di Dylan e, seppur con registri diversi, continueranno ad esserlo anche dopo. Isaia, Ezechiele, l’Apocalisse, i libri sapienziali, i temi escatologici erano stati sempre una sua ossessione, sin dagli esordi al Greenich Village, i corsi biblici alla Vineyard School gli forniranno solo i riferimenti scritturistici necessari per padroneggiare la materia e allargare l’esegesi al Nuovo Testamento. Non c’è dubbio, comunque, che il Dylan della trilogia cristiana ha da sempre imbarazzato la critica: troppo esplicito, troppo evangelico, appassionato. «Grazie alla Sua forza resisto, nel Suo amore sono al sicuro, mi ha comprato ad un caro prezzo. Sono stato salvato dal sangue dell’Agnello e sono così felice…», cantava nella frenetica Saved. «Sono pronto ad abbandonare la mia vita per i fratelli e prendere la mia croce sulle spalle? Mi sono arreso al volere di Dio o mi comporto ancora come se comandassi io?», si chiedeva in Are you ready? Toni agostiniani traspaiono dalla splendida What Can I Do for You? «Mi hai liberato dalla schiavitù e mi hai rigenerato, hai saziato una fame che avevo sempre cercato di negare, hai aperto una porta che nessun uomo può chiudere, mi hai dato gli occhi per vedere, hai spiegato ogni mistero, mi hai donato tutto, cosa posso fare io per Te?».
Ebreo o cristiano? Rimane da sciogliere il nodo gordiano sulle sue origini, quanto Robert Zimmerman sia rimasto ebreo. Ed ecco che tra gli studiosi più attenti si affaccia una tesi da “scacco matto” teologico: la chiave per capire il rapporto col cristianesimo del premio Nobel Dylan starebbe dunque nell’appartenenza – seppur mai resa pubblica dal cantautore – all’ebraismo messianico, il movimento religioso d’ispirazione giudeo-cristiana ed evangelicale, i cui membri condividono la dottrina cristiana sulla figura di Gesù. «È un’ipotesi che trovo assolutamente realistica – afferma il teologo Salvarani a tempi.it – ma a patto che si tenga ben presente il modello religioso statunitense, che non necessariamente prevede l’abbandono di una fede a scapito di un’altra, ma anche la compresenza di più fedi. Per Dylan e il cristianesimo avviene niente di più di ciò che è accaduto per Leonard Choeh e il buddismo. Un ebreo che incontra il buddismo – o, per Dylan, il cristianesimo – rimane ebreo, perché la dimensione ebraica è una dimensione di popolo e non di religione. Si appartiene ad un popolo indipendentemente da un’adesione personale».
D’altronde è ciò che nel 1985 lo stesso Dylan chiamò il “complesso messianico”, cioè il vivere come se il Messia fosse già presente («Sto parlando di fare di Cristo il Signore e Padrone della mia vita, il Re della mia vita. Non sto parlando di un brav’uomo con delle buone idee», così in un’intervista del ’79). «Tutto ciò – confida ancora Brunetto Salvarani a tempi.it – negli Stati Uniti non è affatto difficile che accada, a differenza che in Israele, dove gli ebrei messianici (o giudeo cristiani) sono guardati con sospetto. È indubbio che Dylan sia un uomo impastato di Bibbia; iniziato alla religione con la cerimonia del bar-mitzvà, almeno fino ai 13-14 anni sicuramente segue tutta la trafila liturgica dell’ebraismo, mondo che non abbandonerà mai. Nel momento in cui incontra Gesù è molto probabile che Dylan sia entrato – non abbiamo le prove se formalmente o meno – quantomeno nella sensibilità dei movimenti giudeo messianici. Da quel clamoroso incontro personale sul finire degli anni ’70, credo che egli custodisca dentro di sé un’adesione esplicita alla figura di Cristo Messia».
Foto Ansa
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