LIBERI DALL’EMETTERE GIUDIZI DI CONDANNA

“Uomo, non formulare giudizi ipocriti, quando vuoi correggere tuo fratello, ma umilmente correggi prima te stesso e poi autorevolmente puoi correggere il tuo prossimo, ma evita di dare le cose sante ai cani e ai porci”.

TESTO: MATTEO 7:1-6

Fedro, scrittore latino del primo secolo dell’era cristiana, ci ha lasciato una innumerevole produzione di favole, contenute nei 5 libri delle Fabulae e nell’Appendix Perottina. Una di queste favole tratta le cosiddette due bisacce, ovvero i vizi degli uomini. Essa si esprime nel seguente modo:

“Giove ci impose due bisacce:una piena dei vizi proprio diede dietro le spalle, l’altra pesante dei vizi altrui la sospese davanti al petto. Per questo motivo non possiamo vedere i nostri mali; non appena gli altri errano, noi siamo censori”. Il mestiere dell’uomo di essere censore del suo prossimo è antico come il mondo: si  riconoscono solo  gli errori degli altri, ma non i nostri.  E neppure le chiese sono esenti da questa aberrante ipocrisia umana. Sebbene la fede permei la mente e il cuore dell’uomo redento, tuttavia il cristiano rimane ingabbiato da quel meccanismo farisaico, che  pericolosamente  lo inserisce nel gioco malevolo del giudizio censorio e di condanna, senza esserci una minimaautocritica delle proprie azioni.

Il capitolo 7 dell’evangelo di Matteo è il capitolo delle relazioni  all’interno della comunità cristiana. Dopo avere  Gesù descritto  il carattere del cristiano, la sua giustizia, la sua pietà e la sua ambizione, era inevitabile che egli sottolineasse l’importanza delle relazioni dei cristiani tra di loro e con il Signore, le relazioni con i falsi  profeti, accentuando la radicalità della sequela (la parabola delle due case). I primi cinque versetti evidenziano quali devono essere i rapporti tra i cristiani nella comunità. Gesù non coltivava l’idea di una comunità perfetta, ma realisticamente sapeva che in essa sarebbero potuto sorgere tensioni ed incomprensioni. Particolarmente, in che modo un cristiano dovrebbe comportarsi con un suo fratello che si è comportato male? Gesù ha dato delle direttive circa la disciplina all’interno della comunità? Noi vediamo che Gesù impartisce un codice disciplinare che mette alla berlina due atteggiamenti dal sapore farisaico, ossia il cristiano non deve erigersi a giudice, né deve essere un ipocrita, ma egli deve essere un fratello.

Se noi  ascoltiamo o leggiamo  il primo comportamento che il cristiano deve evitare nell’azione correttiva del proprio fratello,le nostre orecchie e i nostri occhi percepiscono in maniera repentina l’espressione negativa “non giudicare, per non essere giudicati…”. E’ una espressione molto familiare, sebbene il suo significato è spesso frainteso. Le chiese liberali usano questo versetto per dimostrare che nella chiesa non debba essere alcuna azione disciplinare perché in fondo tutti i credenti sono peccatori e nessuno deve arrogarsi il dovere di disciplinare, determinando purtroppo un grave, pericoloso, ignominioso lassismo morale. D’altra parte le chiese fondamentaliste usano il testo per giustificare il loro impegno nell’esercizio della disciplina, ma con un atteggiamento di una corte censoria, che emana freddamente una sentenza definitiva.

Innanzitutto, è necessario dire che l’espressione “non giudicare”  non vuole dire “astieniti da ogni giudizio”.  Gesù non sta automizzando il credente.  E’ fortemente cristiano che il discepolo che si mette alla sequela di Gesù faccia uso delle proprie facoltà critiche nelle sue relazioni con le altre persone. Non può né deve chiudere gli occhi e lasciare andare che gli uomini sbagliano e continuano a sbagliare, senza pretendere di farli notare. Se il cristiano rinuncia alla critica, egli rischia di diventare una persona senza nerbo. Il cristiano, portando  l’impronta del Divino, ha la facoltà di formulare giudizi di valore. Inoltre, nello stesso Sermone sul Monte Gesù insegna a fare uso delle proprie facoltà critiche (Gesù insegna ad essere diversi dall’uomo secolare, a coltivare una giustizia maggiore dei Farisei, ad avere una concezione più alta dell’amore, a non essere come gli ipocriti nell’esercizio della pietà o come i pagani nelle nostre ambizioni). Nello stesso cap. 7 Gesù esorta i suoi a saper individuare i falsi profeti e ad essere cauti nell’annuncio dell’evangelo, affinché la Parola non venga data a coloro che violentemente la ostacolano e la rigettano. Questo complesso insegnamento gesuano non può essere accolto se non è usata la capacità critica. Se Gesù non sta proibendo l’esercizio delle nostre capacità critiche, cosa dunque significa “non giudicare? E’ probabile che Gesù abbia in mente con l’espressione “non giudicare” l’atteggiamento censorio che il cristiano potrebbe adottare nel riprendere il proprio fratello. Il giudizio censorio è formulato da coloro che quasi  si compiacciono nel giudicare, assumendo un atteggiamento cinico di ricerca degli errori altrui e formulando giudizio  di condanna. Ciò che i cristiani devono evitare è quel giudizio, che Paolo definisce nella Prima lettera ai Corinzi “un giudizio formulato prima del tempo”, “poiché è il Signore che metterà in luce quello che è nascosto nelle tenebre e manifesterà i pensieri dei cuori …” (1^Cor.4:4-5). Inoltre, questa  farisaica attività critica censoria del cristiano è denunciata da Gesù con la sua parabola dei corpi estranei negli occhi dei cristiani, la quale vuole evidenziare la cecità dei censori dei propri errori, i cui effetti sono devastanti, perché essi sono giudicati  da Dio con la stessa asprezza con cui loro hanno giudicato (cfr.la parabola del servitore infingardo in  Mt 18:23-35). E’ un detto parabolico grottesco, che ridicolizza il censore che vuole togliere elegantemente una pagliuzza dall’occhio del suo amico, mentre un grosso pezzo di legno è ben conficcato nel suo occhio che oscura interamente la sua visione. E’ interessante che Paolo probabilmente abbia attinto da questo insegnamento di Gesù la sua invettiva contro l’ipocrisia del giudeo  che condannava il suo prossimo per aver commesso orribili delitti, trasgressioni di cui anch’egli era macchiato. (cfr. Rom. 2:1,21-23). Come succede spesso, l’atteggiamento del censore è quello di conficcare il dito nella piaga purulenta del suo amico,mentre minimizza  la gravità del suo arto cancerogeno che è sul punto di essere amputato. E’ la condotta del Fariseo che nella preghiera esalta se stesso per la capacità di adempiere alle formali pratiche rituali, mentre disprezza il povero pubblicano che si batte il petto per avere riconosciuto la sua miseria spirituale.

Qual è il giusto atteggiamento nella riprensione fraterna? Certamente non è quella liberale, ossia non c’è alcuna riprensione: ognuno è responsabile di se stesso. Solo Dio li disciplina. Ma facendo così questi “censori” di se stessi si autoassolvono anche se continuano ad agire contravvenendo agli insegnamenti etici e, perché no, anche biblici. (vedesi ad esempio quello che sta succedendo nelle chiese valdesi). Neppure è da emulare l’atteggiamento dei Fondamentalisti, che continuano ad imitare il servo infingardo della parabola matteana di Mt 18: 23-35. Gesù indica la corretta condotta che i suoi discepoli devono assumere, che è basata soprattutto nel riconoscimento umile dei propri peccati (la trave!!!). Solo quando il discepolo di Gesù ha messo a posto la sua vita (ed è una valutazione critica che egli deve quotidianamente fare) potrà autorevolmente correggere amorevolmente suo fratello (togliere la pagliuzza!!!). Lasciarlo lì nell’occhio la pagliuzza è pericoloso, ma è altrettanto dannoso se esso è tolto con forza e senza delicatezza …  Dunque, ”il nostro dovere di cristiano non è vedere la pagliuzza nell’occhio del nostro fratello, mentre allo stesso tempo noi non notiamo la trave nel nostro bulbo oculare, ma piuttosto questo: primo, togliere dal nostro occhio la trave, così che noi possiamo vedere chiaramente per essere capaci di togliere la “pagliuzza” al nostro fratello” (1)

Da ciò, possiamo dedurre che Gesù non condanna la nostra capacità critica, ma il criticismo gratuito, freddo, polveroso verso gli altri senza che vi sia alcuna analisi critica di se stessi.

Bonhoeffer afferma: “… Giudicare rende ciechi, amare apre gli occhi. Se giudico vuol dire che sono cieco per la mia cattiveria e  per la grazia concessa all’altro. Nell’amore di Cristo, invece, il discepolo conosce ogni peccato ed ogni colpa immaginabile, perché conosce la passione di Cristo, ma allo stesso tempo l’amore riconosce nell’altro colui al quale è stato perdonato sotto la croce. L’amore vede l’altro sotto la croce e appunto in questo ha veramente gli occhi aperti. Se, quando giudico, mi importasse veramente del male, cercherei il male lì dove realmente mi minaccia, cioè in me stesso. Se invece cerco il male nell’altro, proprio allora si dimostra che in tale giudizio cerco il proprio diritto, che giudicando l’altro, voglio restare impunito nella mia propria cattiveria”. (2)

Nella lettura del testo di Mt 7:1-6, il versetto 6 sembra essere un versetto a sé stante, senza alcuno apparente legame con i versetti precedenti. Peraltro Gesù usa anche un linguaggio sorprendente dopo aver dato un appello ad un comportamento fraternamente costruttivo. In verità Gesù ci ha abituato alluso di un linguaggio colorito. Ad esempio, egli chiama Erode Antipa “volpe”,  inveisce contro i Farisei con frasi dure come “razza di vipere” o “sepolcri imbiancati”.  Nel versetto sei Gesù definisce alcune persone “cani “ e “porci”.  E’ d’obbligo porci la seguente domanda: Chi sono” i cani “ai quali non bisogna dare il “cibo consacrato” (cfr. Es.29:33-34; Lev. 22:10-16; Num.18:8-19) e chi sono “i porci” ai quali non bisogna buttare le perle? E che legame ha questo versetto con i versetti precedenti? Prima di abbozzare una riflessione, è necessario dire che sia i cani che i porci sono  in Oriente animali disprezzati  e per i Giudei sono  animali impuri, non addomesticati. Essi girano a branchi per le strade, nutrendosi delle immondizie e sono aggressivi. Chi ha in mente Gesù, parlando dei cani e dei porci a cui non bisogna dare ciò che è santo? Il contesto ci viene in aiuto. Se noi siamo chiamati a rimuovere prima la trave dal proprio occhio, di modo che possiamo chiaramente vedere per poter togliere il bruscolo al nostro fratello, quest’ultimo se è vero fratello apprezzerà la nostra sollecitudine. Ma in realtà non tutti sono grati per la correzione. Anzi, diventano aggressivi e prepotenti. A costoro bisogna evitare di offrire la preziosità dell’Evangelo, perché sono restii a riceverlo e fortemente si irritano. E’ vero quello che viene detto in Proverbi: “Non riprendere il beffardo, per evitare che ti odi; riprendi il saggio e ti amerà” (Prov.9:8). Ed è probabilmente un commento a questo detto di Gesù l’affermazione dura di Pietro verso coloro che apparentemente avevano accettato l’evangelo: “…. Se infatti, dopo avere fuggito le corruzioni del mondo mediante la conoscenza del mondo mediante la conoscenza del Signore e Salvatore Gesù Cristo, si lasciano di nuovo avviluppare in quelle e vincere, la loro condizione ultima diventa peggiore della prima. Perché sarebbe stato meglio per loro non aver conosciuto la via della giustizia, che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo comandamento che era stato loro dato. E’ avvenuto di loro quel che dice con verità il proverbio: “il cane è tornato al suo vomito” e: “la scrofa lavata è tornata a rotolarsi nel fango”. (2^Pietro 2:20-22).

Probabilmente queste spiacevoli situazioni sono causate da pedanti attività evangelistiche tese a convertire ogni peccatore, dimenticando che vi sono momenti in cui è saggio tacere, specialmente quando ci troviamo di fronte feroci nemici dell’evangelo, dai quali beffardamente esso viene oltraggiato e vilipeso.  Giustamente Bonhoeffer sottolinea: “Ogni pressione, ogni insistenza, ogni proselitismo, ogni tentativo di ottenere qualche risultato nel prossimo servendosi del proprio potere, è inutile e pericoloso. Inutile: i porci non riconoscono le perle che vengono loro gettate; pericoloso: così la parola del perdono viene profanata, non solo l’altro che voglio servire viene reso peccatore di fronte alla cosa sacra, ma anche i discepoli che predicano corrono il rischio di subire del male dalla cieca ira degli uomini induriti di cuore e dall’animo ottenebrato, senza necessità e senza utilità. Lo spreco della grazia a buon mercato disgusta il mondo. Questo, infine, si ribella a coloro che vogliono imporre ciò che esso non desidera … L’attivismo che spinge la schiera dei discepoli, che non vuole accettare limiti alla sua opera, lo zelo che non bada alla resistenza scambia la parola dell’Evangelo per una idea vittoriosa. L’idea richiede uomini fanatici, che non conoscono né rispettano una resistenza. L’idea è forte. La Parola di Dio, invece, è tanto debole che si lascia schernire e respingere dagli uomini. Davanti alla Parola i cuori possono indurirsi e le porte chiudersi, e la Parola riconosce l’opposizione che incontra e la sopporta. E’ una esperienza dura: per l’idea non c’è nulla di impossibile, per l’Evangelo, invece, ci sono cose impossibili. La Parola è più debole dell’idea. Perciò  anche I testimoni della Parola sono, con questa Parola, più deboli dei propagatori di un’idea…” (3)

Nessun cristiano può rimanere insensibile a questa grande lezione di saggezza di Gesù. L’autorità del Cristiano nasce dal fatto che, disciplinando se stesso, può disciplinare suo fratello,con la dolorosa consapevolezza che  quest’ultimo può anche ricalcitrare. Allora eviti di offrire la preziosità dell’evangelo e taccia.

(1) R. Stott- The message of the Sermon on the mount- Inter-varsity press, Leicester, 1989, pag. 179

(2) Dietrich Bonhoeffer- Sequela- Queriniana ed, Bs, 1975, pag.163-164

(3) Dietrich Bonhoeffer- Op.Cit., pag. 164-165

Paolo Brancè | Notiziecristiane.com

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