LIBERI DA OGNI APPRENSIONE, TIMORE E PREOCCUPAZIONE

10-paure-piu-cercate-dagli-italiani“UOMO, NON ESSERE SCHIAVIZZATO DALLE PREOCCUPAZIONI NE’ ESSERE SOVRASTATO DALL’ANSIETÀ, MA VIVI E LAVORA OGGI SAPENDO CHE IL SIGNORE PROVVEDERÀ AD OGNI TUO BISOGNO”

 TESTO: MATTEO 6:25-34

“L’ansia è la ruggine dell’anima” afferma Carlos Ruiz Zafon, scrittore spagnolo contemporaneo. Tale aforisma è assolutamente vero, considerando anche che essa è “una manifestazione fondamentale dell’essere nel mondo”, se vogliamo citare un altro aforisma del filosofo tedesco Martin Heiddegger. L’ansia è un moto irrazionale dell’anima determinato da paure, preoccupazioni e apprensioni, spesso non adeguatamente motivate, le quali insorgono perché si teme un futuro incerto o perché si è in procinto di affrontare una esperienza il cui esito è fondamentale per la propria carriera professionale, scolastica o accademica, o per l’incolumità della propria salute. Dal punto di vista emotivo l’ansia, se è acuta, causa un senso di terrore e di panico, deprimendo la persona, costringendola all’inattività e all’inoperosità. Comunque sia, l’ansia fa precipitare la persona nell’angoscia. Senza togliere nulla alla scienza medica, la quale considera l’ansia in generale una forma patologica dell’essere umano, applicando specifiche terapie, il messaggio cristiano propone ai discepoli di Gesù un insegnamento forte e propositivo, teso a sbrigliarli dalle corde opprimenti delle preoccupazioni. Egli fortemente esorta i suoi a non preoccuparsi (gr. mè merimnàte, v.35) per la propria esistenza… cosa vuole dire? Forse Gesù sta stimolando i suoi seguaci ad essere inoperosi e scioperati? Affinché noi possiamo comprendere correttamente l’insegnamento di Gesù sull’azione attiva e costante di Dio che sovviene ai bisogni del Suo popolo, dobbiamo connettere queste pericopi di Matteo 6:25-34 con quelle immediatamente precedenti. Quest’ultime, infatti, enfatizzano l’assoluta temporalità dei beni soggetti alla corruzione e alla loro dissoluzione. Vivere per accumulare i tesori significa trovarsi alla fine della propria esistenza con una manciata di polvere in mano. Al contrario, vivere, facendo buon uso dei beni terreni e conservando nel proprio cuore il tesoro immarcescibile della fede in Cristo, dispone il discepolo di Gesù a porre nel giusto modo i valori gerarchici che contrassegnano la sua esistenza. Dice Bonhoeffer: “… Come Israele nel deserto ricevette la manna da Dio ogni giorno e non doveva preoccuparsi del cibo e della bevanda, e come la manna che veniva conservata per il giorno dopo marciva presto, così il discepolo di Gesù deve ricevere da Dio ogni giorno il necessario; ma se lo accumula per un possesso duraturo, rovina il dono e se stesso”. (1)

L’inno al Dio che provvede allora acquisisce nelle parole di Gesù un patrimonio didattico spiritualmente ed eticamente incisivo e acquietante nella vita del credente. Questo insegnamento gesuano, pur nella sua disincantata, poetica espressività della realtà, è stato bersaglio di aspre critiche, per l’apparente incoraggiamento al disimpegno e al fatalismo. Tuttavia, Gesù né qui né in altri suoi insegnamenti non favorisce l’inerzia né la pigrizia, ma vuole escludere dall’anima dei suoi discepoli l’affanno , le preoccupazioni e l’inquietudine.

Si potrebbe strutturare il testo nel seguente modo: l’enunciazione (v.25), due similitudini, la prima riguarda gli uccelli, in riferimento al cibo (vv.26-27), e la seconda ai gigli, in riferimento al vestito (vv.29-30), la centralità del Regno come unica preoccupazione del discepolo (vv.31-34). A chi sono rivolte Gesù le sue incoraggianti parole? L’uditorio era costituito in gran parte di poveri, il cui lavoro e il cui pane erano incerti, suscitando in loro una viva apprensione. Ma tra gli ascoltatori del sermone di Gesù c’erano anche i suoi più fedeli e intimi collaboratori, gli apostoli, che avevano lasciato tutto, ponendosi alla sua sequela e partecipando alla sua missione itinerante. Costoro senz’altro sperimentavano più di tutti l’incertezza del domani, erano completamente inermi senza potere d’acquisto, condividevano con Gesù la stessa condizione di chi dipende totalmente dall’azione provvidenziale di Dio. Pur avendo in Gesù un esempio di fede in Dio che provvede, essi tuttavia erano fortemente appresi per l’insicurezza del domani (letteralmente loro temevano di che cibarsi e di che vestirsi). Ecco che le parole di Gesù raggiungono un uditorio in continuo sussulto per la precarietà della loro esistenza materiale. La parola chiave del discorso di Gesù è l’imperativo “cercate” (gr.zeteite). Il compito dei discepoli è quello di bramare il Regno di Dio. Essi devono continuare ad appropriarsi del tesoro di Dio, ossia irrobustire la propria vita interiore attraverso la comunione con Gesù, che ci introduce nel Regno di Dio e diffonderlo nella società secolare (la società dei “gentili”) in cui conta maggiormente il denaro, come motivo esclusivamente preminente, l’accumulo del quale produce una illusoria e fugace serenità. Se il credente deve ambire a qualcosa, questo “quid” è il Regno o la Società di Dio, tesoro immarcescibile. L’ambizione della ricerca continua del Regno deve essere l’unica preoccupazione del discepolo. Ed ecco la promessa di Gesù: se il discepolo costantemente ambisce al Regno, si preoccupa della giustizia di Dio, egli non dovrà temere per il suo sostentamento materiale. Il Signore dice: “Tutte queste cose vi saranno date in più”. Ci viene ancora in aiuto le parole di Bonhoeffer: “… Se Cristo ci è stato donato, sei siamo chiamati a seguirlo, allora con lui ci viene donato tutto, veramente tutto. Tutto il resto ci sarà dato in più. Chi, seguendo Gesù, guarda solo alla giustizia di Cristo, è al sicuro nella mano e sotto la protezione di Gesù Cristo e di suo Padre, c chi è così in comunione con lui non può più dubitare che il Padre non sappia nutrire i suoi figlioli e non li farà soffrire la fame. Dio li aiuterà al momento opportuno. Egli sa, di che cosa abbiamo bisogno. Chi segue Gesù anche dopo essere stato a lungo suo discepolo, alla domanda del Signore: “Vi è mancato qualcosa? Risponderà: “mai, Signore”. Come potrebbe mancare di qualcosa chi, pur affamato e nudo , nella persecuzione e nel pericolo, è certo della comunione con Gesù Cristo?” (2)

E’ teneramente suggestivo e efficacemente incisivo l’impiego di Gesù di due similitudini tratte dalla vita animale e vegetale.

Nella prima similitudine il Signore parla del comportamento degli uccelli:

“…Osservate gli uccelli del cielo…” (gr. emblepsate eis peteinà tou uranù) in relazione al bisogno elementare del procurare il cibo per il corpo. Se osserviamo il ritorno delle rondini a Primavera, oppure un semplice, “insignificante” passerotto in quello che è il suo naturale compito, ossia andare alla ricerca di qualche verme o di molliche di pane sbriciolate per terra, o di qualche altro insetto, egli procura il cibo necessario per sé e per la sua nidiata. Dio provvede in natura il cibo per loro. Essi non sono oziosi e pigri aspettando qualcuno che glielo porta. Loro “lavorano” ossia si impegnano nel loro compito di cercatori del cibo di cui loro necessitano senza preoccuparsi per il domani, perché il giorno dopo faranno la stessa cosa e così di seguito. Bella e bucolica immagine di vita campestre, qualcuno potrebbe dire. Assolutamente no, Gesù è ben lontano dall’idea di comporre brevi sonetti sulla vita campestre. Egli è molto pratico ed immediato nel dare corpo alle sue parole. E non c’è alcuna immagine più efficace di quella del lavoro giornaliero dell’umile passerotto o della rondine migratrice per illustrare l’inutilità della preoccupazione umana per il domani. Il discepolo è chiamato a lavorare e ad adempiere alle sue specifiche mansioni professionali. Questo vale anche per chi ha letteralmente lasciato l’attività lavorativa per adempiere a compiti esclusivamente ministeriali. Il discepolo che è chiamato ad essere operaio del Regno, deve svolgere quotidianamente questa specifica mansione. Preoccuparsi significa diffidare dall’azione provvidenziale di Dio (al seguito di Gesù vi erano donne che sostenevano l’opera missionaria del gruppo!). L’ozio, la pigrizia, l’indolenza non hanno diritto di cittadinanza nel pensiero di Gesù. Al contrario, il discepolo è responsabile del suo lavoro per poter portare a casa il necessario per l’oggi, senza cadere nella trappola del pensiero secolare di affannarsi l’anima per accumulare denaro illudendosi di assicurare il suo futuro senza Dio (cfr. la parabola del ricco stolto Lc.12:13-21).

La seconda similitudine è tratta dal mondo delle piante. Con essa egli vuole dissuadere i suoi dalle preoccupazioni per vestire ed adornare il corpo. Gesù parla della bellezza dei gigli dei campi, i quali si presentano all’occhio umano come fiori belli da vedere, i quali a primavera coprono le lussureggianti campagne della Palestina. Vi sono alcuni tipi di fiori in Palestina particolarmente rigogliose e maestose come l’anemone rosso, il tulipano e, in particolar modo, il giglio d’Etiopia, “la corolla del quale sfoggia tale bellezza, che mai fu visto in Europa un velluto cremisi che lo agguagli”. (3) Sembra che Gesù faccia allusione a questo fiore, la cui maestosità supera l’abbigliamento pregevole di Salomone. L’iperbolica affermazione di Gesù determina la cura che ha Dio per le piante, le quali hanno un compito ornamentale ed esse sussistono per la legge naturale che Dio ha assicurato attraverso cui le piante nascono e si sviluppano per un gioco simbiotico di luce, pioggia e terra.

E se il Signore assicura il cibo agli uccelli del cielo e veste i gigli dei campi che hanno breve durata, non farà di più con i suoi discepoli?

Il Signore sa le cose di cui abbiamo bisogno, ma il compito precipuo del credente è quello di essere ricercatore del Regno e della giustizia di Dio, ossia egli deve essere ambizioso di diffondere l’evangelo nella società in cui si muove, finanziare progetti missionari perché l’Evangelo superi i confini ristretti del suo habitat naturale e impegnarsi in una produttiva azione sociale per diffondere nel suo ambiente i più alti standard di giustizia che sono graditi a Dio.

“Uno può essere ambizioso o per se stesso o per Dio. Non c’è una terza alternativa.

L’ambizione per se stesso può essere di modesta entità (abbastanza per mangiare, bere e vestirsi, come nel Sermone) o essa può essere grandiosa ( ambire a una grande casa, a una velocissima automobile di ultima generazione, a un più alto salario, a una più vasta reputazione, ad acquisire più potere). Ma se modesta o non modesta, questa ambizione è per me stesso , per il mio conforto, per il mio benessere, per il mio potere.

L’ambizione per Dio, se essa deve essere nobile e degna, non può mai essere modesta. C’è qualcosa di inappropriato se il credente coltiva una modesta ambizione per Dio. Possiamo mai ritenerci soddisfatti quando noi assicuriamo a Dio un onore un po’ più che modesto?. Non sia. In noi è molto chiaro che Dio è il Re, allora noi dobbiamo vederlo incoronato con la gloria e l’onore che solo a Lui spetta. Il nostro compito è quello di diventare molto ambiziosi per la diffusione del Suo Regno e della Sua giustizia a livello planetario”. (4)

(1) Dietrich Bonhoeffer – Sequela – Queriniana, Bs, 1975, pag.152

(2) Dietrich Bonhoeffer – Op. Cit.- pag. 158-159

(3) Robert G.Stewart-L’Evangelo secondo Matteo e Marco- Claudiana, To, 1984, pag. 67

(4) John Stott- The Message of The Sermon on the Mount- Inter-varsity, Leicester, 1989, pag. 172-173

Paolo Brancè | Notiziecristiane.com


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