Come facciata, l’educazione alle pari opportunità e la lotta agli stereotipi. Nella sostanza, una raffigurazione perlopiù conflittuale della relazione uomo-donna, con il primo dipinto prevalentemente come prevaricatore, e una rappresentazione della famiglia come luogo in cui si limita la libertà del soggetto e lo si influenza con i cosiddetti “stereotipi di genere”. Con il pretesto di svolgere corsi con obiettivi – sulla carta – condivisibili, in alcune scuole non si rispetta più la libertà educativa dei genitori. In particolare, capita che certi corsi vengano tenuti da associazioni con una prospettiva educativa diametralmente opposta al tipo di educazione che molte famiglie desiderano trasmettere ai loro figli. Associazioni vicine alla galassia Lgbt, che uniscono temi del femminismo a concetti tipici del gender.
L’ultima segnalazione ci arriva da Milano, dove la pedagogista Daniela Frizzele – chiaramente d’accordo sull’educazione alle pari responsabilità tra uomo e donna, ma in disaccordo con l’approccio educativo adottato – ha scritto alla dirigente della scuola elementare frequentata dalla figlia, per chiederne l’esonero da un corso sulla “parità di genere”, rivolto a bambini di quinta, motivando la sua richiesta con una puntuale critica pedagogica. E ha domandato che fosse prevista un’attività alternativa.
Il corso in questione si intitola “A scuola di parità”, prevede quattro incontri di due ore ciascuno, in orario curriculare, come se si trattasse di una lezione di italiano o matematica. Sorprende innanzitutto che la scuola indichi come obbligatorio un progetto su temi così complessi e sensibili. Su quali basi? L’obbligatorietà non può essere giustificata sulla base di indicazioni ministeriali né può bastare che il progetto sia approvato da altre famiglie e inserito nel piano triennale di offerta formativa (nel Ptof aggiornato della scuola, tra l’altro, compaiono appena tre righe generiche sull’“educazione all’affettività e alla parità di genere”, che non costituiscono certo un’informazione dettagliata). I genitori hanno infatti il diritto di educare liberamente i propri figli, un diritto naturale che è riconosciuto dallo stesso articolo 30 della Costituzione e da convenzioni internazionali che l’Italia ha ratificato. È perciò evidente che l’asserita obbligatorietà di un corso su temi sensibili contrasta con il diritto alla libertà educativa dei genitori, che va rispettato.
Alla luce di questo basilare principio, sorprende che la preside abbia respinto la richiesta di esonero presentata dalla Frizzele e da altri due genitori, sostenendo che il progetto sia curriculare e in linea con le azioni del Miur. Sul punto abbiamo chiesto un parere all’avvocato Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la Vita: “I genitori hanno priorità di diritto nella scelta del genere di istruzione da impartire ai propri figli, come dice l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che è stato stabilito proprio per contrastare l’indottrinamento del potere attraverso la scuola pubblica. Negando l’esonero, la preside viola un diritto fondamentale dell’uomo”. Amato si è detto disponibile a dare ai genitori contrari al corso il supporto dell’associazione da lui presieduta: “Nel caso in cui la scuola continuasse con questo atteggiamento prevaricatore, i Giuristi per la Vita sono a disposizione per tutelare legalmente questo sacrosanto diritto alla libertà educativa”.
LE PERPLESSITÀ SUL PROGETTO “A SCUOLA DI PARITÀ”
Nello specifico, il progetto è tenuto dall’Ala Milano Onlus, un’associazione che collabora con l’Arcigay, l’Agedo, la Chiesa Valdese, la Casa dei diritti (il braccio ideologico, pagato con soldi pubblici, dell’assessore milanese Pierfrancesco Majorino), il colosso di preservativi Durex, il network Parks, il sito Pianetagay, l’Unar e varie altre realtà vicine all’universo Lgbt e femminista. Già da queste collaborazioni si comprende che la cultura di riferimento dell’Ala è ben lontana da una prospettiva familiare ed educativa che valorizzi la bellezza della complementarità maschile-femminile su cui si fonda la famiglia naturale, e di conseguenza la società, e che molti genitori intendono testimoniare ai propri figli.
È in ragione di questa differenza culturale, e sulla base di quanto direttamente ascoltato durante l’incontro di presentazione tenuto a marzo dagli operatori dell’Ala, che la dottoressa Frizzele ha inviato alla dirigente una critica pedagogica del corso. Nella sua lettera, la pedagogista ha contestato anche alcuni contenuti della scheda di presentazione del progetto – un Pdf di cinque pagine, caricato sul sito della scuola – che si era già svolto nel 2015/16 con il contributo del Comune di Milano. Dopo le perplessità sollevate, le è stato detto che il progetto di quest’anno è diverso nei contenuti da quello svolto nel 2016. Solo allora, sul sito dell’istituto è stato poi caricato un nuovo file, di una pagina appena. Ma la sostanza è che il progetto si chiama sempre “A scuola di parità”, l’associazione che lo realizza è ancora l’Ala e la prospettiva educativa non sembra diversa da quella dell’anno precedente, sebbene presentata con un linguaggio più sfumato e sintetico (confronta qui). Nella nuova scheda ci si richiama sempre alle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, che in tema di educazione sessuale e all’affettività non rassicurano affatto, e la strategia centrale rimane “la messa in discussione di stereotipi e luoghi comuni”. Il problema è che gli stereotipi che si pretenderebbe di decostruire sono spesso frutto di differenze naturali tra maschi e femmine, che in riferimento all’età evolutiva dei bambini servono a strutturare una conoscenza della dualità maschile e femminile, come la stessa pedagogista ha spiegato nella sua lettera di critica. La richiesta di esonero per la bambina, come detto, è stata respinta ed è pienamente comprensibile che la Frizzele affermi oggi – come madre – di non sentirsi rispettata nella sua responsabilità educativa nei confronti della figlia.
CHE COSA SI TROVA SUL SITO DELL’ALA ONLUS
Al di là dei contenuti specifici del corso che si sta tenendo nell’istituto in queste settimane, è bene sapere qualcosa di più sull’Ala, visto che si tratta di un’associazione che educa bambini e adolescenti in scuole pubbliche. Anche perché l’Ala ha un suo sito Internet, peraltro indicato nella scheda del progetto, e la conoscenza dei suoi valori culturali è perciò a portata di clic. Spulciandone il sito, oltre a scoprire le già citate collaborazioni con varie realtà Lgbt, salta agli occhi come l’associazione abbia uno sportello trans e uno sportello legale, che promuovono i cosiddetti percorsi di transizione sessuali (i quali, come si sa, possono prevedere sia invasivi e pericolosi trattamenti ormonali sia interventi chirurgici per l’illusorio cambiamento di sesso) e il diritto all’identità di genere. Quest’ultimo preteso “diritto”, che slega arbitrariamente il concetto di genere dal sesso biologico, è parte integrante dell’agenda del transessualismo e vale la pena ricordare che si fonda su un’errata teoria elaborata da John Money, uno psicologo e sessuologo che negli anni ’60 convinse due genitori a far crescere un bambino come se fosse una bambina: quel bambino, divenuto adulto, si suicidò perché non si identificò mai nel sesso femminile.
Per senso di carità, va poi detto che i tentativi di stravolgere il proprio corpo fanno male innanzitutto ai soggetti che si sottopongono a questo tipo di interventi. Secondo una vasta indagine del National center for transgender equality, negli ambienti trans la diffusione dell’Aids e i tassi di suicidio sono rispettivamente cinque e dodici volte superiori al resto della popolazione, senza contare altri drammi di cui questo quotidiano ha già parlato. Il rinnegamento dei significati del proprio corpo, che si realizza con i trattamenti ormonali e la chirurgia, non è perciò la soluzione per chi attraversa una fase di confusione sulla propria identità sessuale, che nella stragrande maggioranza dei casi viene superata naturalmente dopo la pubertà, come ricorda un recente documento dell’American College of Pediatricians.
Riguardo ai partner dell’Ala, segnalati in una sezione del sito, spicca Pianetagay, la cui home page è già tutto un programma: oltre alle varie foto di uomini più nudi che vestiti, ci si imbatte in articoli dai titoli eloquenti come “Erezioni in pubblico”, “Perché gli etero guardano i porno gay?”, “Sesso orale gay”, eccetera. Ci sono poi diversi articoli che illustrano le pratiche fetish più diffuse nel mondo gay e pubblicizzano di continuo materiale pornografico, come se non si sapesse che la pornografia è una piaga sociale per bambini, adolescenti e adulti, che rovina le relazioni umane, genera violenza e presenta le persone come oggetti, in una visione della sessualità totalmente distorta e contraria all’amore autentico. Un’associazione che si propone di educare alla parità tra uomo e donna dovrebbe quindi essere agli antipodi rispetto a un sito come Pianetagay: invece, lo indica come proprio partner. E bastano tre clic sul sito dell’Ala per ritrovarsi su Pianetagay.
Ora, è ancora lecito in Italia che dei genitori si rifiutino di far educare i propri figli da un’associazione con cui non hanno nulla in comune?
di Ermes Dovico | Lanuovabq.it
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