L’esperienza e le parole: Bonhoeffer parla ancora ai giovani

A colloquio con lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati.

Nei giorni 20-25 febbraio è allestita a Roma, all’Università Tor Vergata, la mostra «Libertà, a lungo ti cercammo». Dietrich Bonhoeffer. Resistenza e amicizia* dedicata al teologo luterano ucciso dai nazisti. Qual è la sua peculiarità? Quella di non essere stata ideata da chiese né organismi ecclesiastici. Ne parliamo con Eraldo Affinati, scrittore e insegnante che lavora particolarmente con i giovani stranieri e che a Bonhoeffer ha dedicato un libro (Un teologo contro Hitler, Mondadori 2002), uno fra gli oratori della tavola rotonda inaugurale.

«Sarà una mostra, organizzata dai giovani universitari romani di Tor Vergata, in perfetto stile Bonhoeffer – ci dice –: stiamo parlando di un individuo speciale che ha pensato e vissuto un cristianesimo radicale, capace di coinvolgere tutti, anche i non credenti. Senza rinunciare alla “disciplina dell’arcano”, dobbiamo trovare nuove strade per diventare pienamente uomini».

Nel libro lei coglieva la necessità, sostenuta da Bonhoeffer, di vivere il proprio cristianesimo in maniera indipendente dalle istituzioni ecclesiastiche e prosegue dicendo che per annunciarne il messaggio evangelico bisognerebbe inventare un nuovo linguaggio: siamo ancora allo stesso punto? Oppure i 15 anni trascorsi dall’uscita del libro le mostrano una consapevolezza diversa?

«In questi quindici anni il tema del linguaggio nuovo da trovare per riuscire a parlare a ogni essere umano è diventato ancora più urgente. La cosiddetta rivoluzione digitale ci chiama a una riflessione ulteriore. Dobbiamo fare in modo che le nostre parole non siano gratuite ma scaturiscano dall’esperienza, anzi di più: devono essere vincolate a essa. Non a caso Bonhoeffer diventa scrittore nel carcere di Tegel, nel momento di massima emergenza politica. Noi dovremmo riprendere il suo discorso interrotto rinnovandolo secondo i nuovi tempi che stiamo vivendo. Per questo è necessario trovare azioni comuni capaci di coinvolgere persone che magari la pensano diversamente. Nel mio piccolo ho fondato la scuola “Penny Wirton” per l’insegnamento della lingua italiana agli immigrati proprio nel tentativo di realizzare questo assunto».

Il suo libro, ma anche il precedente Campo del sangue, su Auschwitz, si presentano come dei «pellegrinaggi laici»: perché è così importante cogliere l’aspetto evocativo dei luoghi?

«Fra pochi anni non ci saranno più i testimoni diretti della Shoah. Dovranno essere le generazioni venute dopo ad assumersi la responsabilità informativa che prima era stata prerogativa dei diretti interessati. Con una differenza essenziale: mentre gli ex deportati (penso anche a mia madre) avevano la legittimità per parlare, noi dovremo conquistarci questo diritto-dovere. Ci potranno essere utili proprio i luoghi dello sterminio che, come sapeva Günther Anders, sono “terreni consacrati”. Questo imperativo io lo sento sia come scrittore sia come insegnante».

Nel suo libro coglieva molto bene l’idea bonohefferiana di una umanità fatta di persone che hanno la consapevolezza di non «disporre della propria esistenza» (in quelle pagine Bonhoeffer affronta il tema della preghiera): è questo un concetto che si ritrova nelle discussioni sulla bioetica, ma, oltre che riferirlo a Bonhoeffer, lo sente anche come suo?

«Non poter signoreggiare sulla nostra vita significa mettersi in una posizione antinovecentesca: uomo dei limiti, non uomo delle possibilità. La vera libertà, in senso bonhoefferiano, scaturisce dall’accettazione della propria finitudine. Io sin dall’inizio ho sentito la forza di questa tesi: il mio primo libro è su Lev Tolstoj, che in Guerra e pace s’identifica nel generale Kutuzov, uomo della steppa, contrapponendosi a Napoleone, figlio dell’Illuminismo».

In un altro suo libro (Veglia d’armi, 1998) cita lo scrittore valdese Piero Jahier: perché?

«Piero Jahier è uno degli scrittori più importanti del Novecento italiano. Quello che mi ha sempre colpito in lui è la potenza etica che si misura nel rapporto con gli altri: basti citare il titolo del suo testo più famoso, Con me e con gli alpini, per capire la dimensione corale della sua riflessione umana. Ammiro molto lo stile di Jahier (penso a Ragazzo): nei testi che ha composto prosa e poesia giocano ad armi pari. Oggi noi avremmo bisogno di ritrovare una forza espressiva di questo peso».

Nell’introduzione scritta per il «Meridiano» Mondadori dedicato alle opere di Mario Rigoni Stern fa riferimento alla «austerità biblica» tipica dell’autore in alcune sue descrizioni: quanto circola la Bibbia nella letteratura?

«Molti scrittori moderni, come Mario Rigoni Stern, hanno cercato di ritrovare la sintesi, in verità irripetibile, del testo biblico: lirica, narrazione, speculazione, filosofia si fondono nell’esperienza profonda della realtà. In quelle radici c’è la casa spirituale dell’uomo occidentale. Proprio Bonhoeffer ci ha insegnato a percorrere i vecchi sentieri dei padri rinnovandoli alla luce dei nostri giorni. Chi legge la Bibbia moltiplica la propria energia, non sottrae nulla a se stesso, ma aggiunge, accresce, intensifica. Anche questa intuizione è un lascito prezioso di Dietrich Bonhoeffer».

* visite guidate ore 10,30-18; mostrabonhoeffer@gmail.com

di Alberto Corsani | Riforma.it

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