La notizia non è nuova e negli anni scorsi alcuni giornalisti avevano tentato in più occasioni di evidenziare gli abusi compiuti dagli inquirenti indiani del Kerala nelle perizie balistiche.Negli esami sui cadaveri dei due pescatori che secondo Nuova Delhi sarebbero stati uccisi a bordo del peschereccio Saint Anthony 15 febbraio 2012 dal fuoco dei Fucilieri di Marina salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Sforzi inutili sia perché l’India ha fatto letteralmente scomparire la perizia per oltre due anni obbligando al silenzio l’anatomopatologo professor K Sasikala che aveva effettuato le autopsie, sia perché almeno due governi italiani non hanno voluto attaccare a muso duro l’India sperando in una soluzione amichevole del caso che non c’è stata.
Oggi che, dopo il ricorso italiano all’arbitrato internazionale, l’India ha depositato presso il Tribunaledel Mare di Amburgo tutti gli atti della vicenda, le perizie diventano di dominio pubblico. Anche questa volta però a rendere noti documenti e contenuti non sono state le autorità italiane, ma da Luigi Di Stefano, il perito che da anni combatte la sua personale battaglia per smontare le accuse indiane ai nostri militari ricorrendo ad analisi tecniche e alla ricerca dei documenti. Più volte emarginato dai media politicamente corretti per la sua dichiarata vicinanza al movimento Casa Pound, Di Stefano ha raccolto un’impressionante mole di materiale che dimostra non solo l’innocenza di Latorre e Girone ma soprattutto la malafede dell’India e l’infingardaggine dell’Italia.
La perizia effettuate sui cadaveri è stata raccontata, documento alla mano, da Lorenzo Bianchisul Resto del Carlino. L’autopsia rivelò subito che i proiettili mortali non potevano essere stati esplosi dalle armi in calibro 5,56 (fucili Beretta AR-70/90 e mitragliatrici FN Minimi) in dotazione al nucleo di marò sulla petroliera Enrica Lexie. I documenti allegati alle “Osservazioni scritte” depositate dall’India al Tribunale sul diritto del Mare di Amburgo lo scorso agosto, mostrano che è stato estratto un proiettile «lungo 3,1 centimetri, con una circonferenza di 2 centimetri e di 2,4 centimetri sopra la base». Le ogive calibro 5,56 dei marò sono però lunghe 2,3 centimetri, molto meno del proiettile estratto dalla testa di Valentine Jelestine che sembrano decisamente essere di russo calibro 7,62, gli stessi in dotazione alle motovedette Arrow della Guardia Costiera dello Sri Lanka che negli ultimi anni hanno ucciso oltre 400 pescatori indiani sorpresi a pescare tonni di frodo nelle acque cingalesi. Secondo Luigi Di Stefano potrebbe essere una cartuccia di calibro 7 e 62 x 54 R che nell’area è molto diffusa.
La malafede degli indiani viene però confermata dal fatto che l’autore dell’esame balistico, N.G. Nisha,vicedirettore del Laboratorio di medicina legale a Thiruvananthapuram, attribuisce i proiettili rinvenuti nei cadaveri a quelli sparati nei test dai fucili sequestrati ai Fucilieri italiani sulla Lexie senza tenere in alcun conto che le misure rilevate da Sasikala il 16 febbraio rendevano la sue perizia inattendibile. Il rapporto dell’esperto balistico del 4 aprile 2012 conferma, infatti, che i proiettili recuperati sui corpi delle vittime erano stati sparati da due delle armi sequestrate dall’Enrica Lexie, fucili Beretta SC AR70/90 calibro 5,56 millimetri. Proprio per sostenere la tesi indifendibile, come raccontò lo stesso Lorenzo Bianchi, al professor Sasikala venne vietato dalle autorità del Kerala di parlare con i giornalisti mentre l’intera testimonianza dell’equipaggio del peschereccio Saint Anthony venne messa a punto a tavolino smentendo così le dichiarazioni rilasciate a caldo anche dallo stesso armatore, Freddie Bosco, che appena sbarcato raccontò a una tv indiana di aver subito un attacco alle 21 della sera prima (14 febbraio) mentre tutti a bordo dormivano, causa che insieme all’oscurità impedì di riconoscere la nave da cui erano provenuti i colpi.
Successivamente Bosco rettificò posticipando l’attacco alle 16,30 del 15 febbraio (strano che tuttidormissero nel pomeriggio) e riconoscendo perfettamente la nave italiana. A indurre a credere che la prima testimonianza fosse quella corretta contribuì anche il rigor mortis già evidente nei cadaveri dei due pescatori nelle immagini diffuse dalle Tv indiane al loro arrivo a Trivandrum. Un rigor mortis giustificabile dopo oltre 24 ore dal decesso ma non certo dopo pochissime ore. Poi, il misterioso affondamento del peschereccio, poi recuperato dai bassi fondali del porto alcune settimane dopo, permise di cancellare ogni prova balistica che avrebbe potuto dimostrare come i fori sull’imbarcazione fossero stati procurati da un’arma più pesante di quella italiana e con una direttrice di tiro orizzontale (quella di una motovedetta) e non dall’alto verso il basso, come dichiarò Bosco e il suo equipaggio attribuendo il fuoco ai fucilieri italiani posizionati sulle alte murate della petroliera. Infine, l’apparato Gps del Saint Antony, che avrebbe potuto indicare l’esatta rotta percorsa dal peschereccio, non fu consegnato da Bosco alla polizia all’arrivo in porto (la polizia non lo pretese?), ma solo otto giorni dopo, il 23 febbraio, assieme a un computer malridotto.
Difficile comprendere la ragione dell’evidente volontà delle autorità indiane di incastrare gli italianianche se ora le “prove” presentate ad Amburgo verranno facilmente smontate dal Tribunale internazionale. Ancor più difficile è però capire perché Roma non si ribellò mai denunciando queste gravi irregolarità e violazioni già ben evidenti quando ai due ufficiali dei carabinieri inviati come osservatori fu impedito di assistere agli esami balistici e all’autopsia. Forse si preferì subire in silenzio, pagando indennizzi a Bosco e alle famiglie dei due pescatori, limitandosi a contestare la giurisdizione senza entrare nel merito della vicenda, per non perdere i lucrosi affari commerciali con Delhi.
di Gianandrea Gaiani | Lanuovabq.it
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