) Due madri di sei figli ciascuna stanno vivendo sulla loro pelle l’attacco militare nella Striscia di Gaza iniziato l’8 ottobre 2023. Le case di entrambe le donne sono state distrutte molteplici volte in precedenti attacchi israeliani da quando Israele ha imposto il blocco aereo, marittimo e terrestre sulla Striscia nel 2007. Cos’ha significato per loro quest’ultimo anno? Di seguito le loro testimonianze.
Andaleeb Abu Al Qumbuz
Ho 59 anni e sono madre di sei figli, tre ragazze e tre ragazzi. Due di essi sono disabili. La figlia minore frequenterebbe il secondo anno delle superiori. Siamo residenti a Gaza e viviamo sul confine orientale dal 1994.
I primi giorni della guerra sono stati estremamente tragici. Vivevamo presso un’area di confine, quindi fin dall’inizio siamo stati costretti ad andarcene. Ognuno di noi ha portato con sé solo un ricambio di vestiti. Non abbiamo preso nulla per dormire, non una coperta, nemmeno del carburante, nulla. Siamo semplicemente partiti.
I prezzi per comprare qualcosa sono elevati e non abbiamo entrate. Viviamo un’esistenza molto primitiva che non assomiglia in alcun modo alla nostra vita precedente.
Prima di essere distrutta [nella guerra in corso] la nostra casa era in mezzo a un giardino. La chiamavamo la nostra isola verde e la vita era bella. Avevamo l’aria condizionata. Mio figlio Amjad e una mia figlia [entrambi disabili] avevano ciascuno una stanza da bagno accessibile. Adesso viviamo in una tenda. Questa è la cosa più difficile. Dover ricominciare tutto da capo. Ho 59 anni e lavo i miei vestiti a mano. L’acqua non è adatta, è molto salata. Cuociamo il cibo in forni di fango.
Patisco gli spostamenti. Tre volte, anzi no, quattro volte da quando abbiamo lasciato casa nostra abbiamo dovuto di nuovo spostarci da un posto a un altro. Si vorrebbe poter restare fermi per un po’, finché la psiche si adatta – se si adatta.
Adesso sento che persino i miei figli hanno perso la speranza. Mi sembrano invecchiati, è come se avessero 100 anni. Attualmente il loro desiderio più grande è di andare a raccogliere legna o a fare rifornimento di acqua. “Mamma, c’è acqua qui”. Oppure: “Dammi il telefono da ricaricare”. Queste sono le loro aspirazioni. È tragico.
Mia figlia Shaima ha 37 anni. Ha fatto la scuola superiore e da adolescente andava in giro dappertutto, normalmente. Non si sa che cosa abbia causato la sua paralisi. Dal giorno in cui è iniziata la guerra non assume più i suoi farmaci. Quando la cambio devo chiedere a tutti di uscire [dalla tenda] per evitare di esporre la sua intimità agli sguardi di chicchessia. Non riceve le cure di cui necessita né fa fisioterapia. Come se non bastasse, la sua sedia a rotelle è rotta. Dobbiamo caricarcela ovunque. Ho supplicato chiunque, ma nessuno è venuto ad aiutarci. Questa è la parte più dura, la cosa che più mi fa soffrire adesso.
Prima della guerra eravamo in grado di sostenere Shaima grazie a un progetto di allevamento di conigli dell’Al-Najd Developmental Forum [ONG palestinese partner del Comitato centrale mennonita, MCC]. Abbiamo iniziato con una gabbia di conigli. È stato un successo durato tre anni. Shaima ne ha ricavato davvero tanto. Anche Amjad, con la sua disabilità, contribuiva occupandosi della pulizia. Era la prima fonte di reddito dell’intera famiglia. Adesso dipendiamo dalla beneficenza.
Le vite di adulti e bambini sono distrutte. Persone innocenti sono state uccise con il pretesto [da parte del governo israeliano] di voler eliminare il terrorismo. Terrorismo? Nell’ultimo raid è morta mia nipote con il marito, i figli e la suocera. Tutte queste persone sono morte, sedici persone assassinate e, per Dio, non avevano alcuna colpa. Per quale crimine sono state uccise? Non abbiamo mai assistito a una distruzione del genere. Sì, abbiamo già avuto guerre e distruzione, ma non a questi livelli. Ne abbiamo abbastanza. Basta morti, basta spargimenti di sangue.
Islam Jameel Ali Al-Mufti
Vivo a Gaza e ho quarant’anni. Mio marito e io abbiamo cinque figli maschi e una figlia, Jude, che dovrebbe frequentare la prima elementare. Il più grande ha diciannove anni. Abbiamo vissuto nel centro di Beit Lahia per quasi 22 anni. [Adesso sono sfollati e vivono in una tenda.]
Non ci aspettavamo che sarebbe scoppiata una guerra. Siamo andati via di casa pensando che sarebbe stato per un paio di giorni e che poi avremmo potuto ritornarvi. Non ho preso nulla con me a parte un cambio di vestiti. Siamo rimasti nella scuola Abu Asim per quasi un mese e mezzo. Hanno fatto un’incursione e [i soldati israeliani] hanno sparato contro la scuola, perciò siamo andati all’ospedale Al-Shifa. Dall’inizio del conflitto siamo stati dislocati nove volte.
Mi sveglio al mattino e mando mia figlia o mio figlio a cercare un po’ di carta da usare per accendere il fuoco e cucinare. E poi aspettiamo il nostro turno per prendere l’acqua al pozzo. Può essere necessario attendere anche due, tre, quattro, cinque, sette ore prima di riuscire a riempire una sacca d’acqua o due. A volte non riusciamo ad avere l’acqua.
Tutto costa caro. Il flacone di sapone era a mezzo shekel, adesso lo vendono per cinque shekel. Un flacone di shampoo è balzato da 10 shekel a 120 shekel [da 2 a 27 franchi circa]. Non riusciamo a stare al passo. L’Al-Najd ci ha dato un pacco alimentare. Conteneva cose importanti come cereali, riso, lenticchie, bulgur, olio, pelati in scatola. Ci hanno fornito cose importanti che non possiamo comprare. Voglio dire, grazie a Dio, era come un olio per lenire le nostre ferite. C’era cibo per quindici giorni.
Reggo a stento la paura [dei miei figli] quando vedono un aeroplano in volo sopra di loro. Ce ne stiamo seduti e d’un tratto sentiamo un missile esplodere e mia figlia si mette a piangere e urlare. Allora la abbraccio e le dico: “Sono lontani da noi”. Ma le esplosioni sono molto vicine. Ieri mi ha chiesto: “Se un missile colpisce, chi raccoglierà il mio corpo?”. Non sapevo che cosa rispondere.
Mio figlio Muhammad frequentava il secondo anno di scuola superiore. Aveva una personalità vincente. La guerra era appena iniziata quando ha visto i carri armati a Al-Shifa e i soldati prendere il controllo delle strade. Era così terrorizzato che si avvicinassero a noi. Il trauma ha portato Muhammad a non riuscire a riconoscerci. Soltanto da poco Muhammad ha ripreso a riconoscere sua madre, suo padre e i suoi fratelli. Lo voglio indietro. Voglio un sostegno per Muhammad, qualcuno che possa curarlo. Voglio che Muhammad torni a essere quello che era. Vogliamo che il mondo sia con noi e fermi la guerra. Vogliamo riempire di misericordia i loro cuori. Devono fermare la guerra per amore dei nostri bambini.
In questi anni questa è la terza volta che la nostra casa viene danneggiata dai raid israeliani. Una granata aveva mandato in fiamme la mia camera da letto. La prima volta un’agenzia umanitaria ci ha aiutati a risanarla, la seconda volta abbiamo ottenuto l’aiuto dell’Al-Najd. È stato quando i miei figli più grandi erano ancora piccoli.
Hanno fatto una ristrutturazione completa di tutta la casa – tre camere, una stanza da bagno, la cucina e il soggiorno. Ne ero davvero felice e ho pregato per loro [gli organizzatori]. Che Dio li protegga. O Signore, abbi pietà e risana la mia casa ancora una volta. Tutto ciò che vogliamo è tornare a casa nostra, anche se dovesse significare piantare una tenda al centro delle rovine di quella che era la nostra dimora. Sarebbe meglio di niente. Vogliamo soltanto che la guerra finisca.
(Sally Al Turk è una videografa di stanza a Gaza; editing di Linda Espenshade, coordinatrice dell’informazione per MCC U.S.; trad.: G. M. Schmitt)
Il Comitato centrale mennonita (MCC) ha fornito aiuti in denaro, scorte alimentari e soccorsi d’emergenza ai civili di Gaza attraverso la sua chiesa e i suoi partner per lo sviluppo. Una di queste organizzazioni partner, l’Al-Najd, sperava di poter effettuare distribuzioni ripetute di pacchi alimentari, ma è stata costretta a limitarsi a distribuzioni singole a causa della difficoltà di far arrivare le scorte in determinati luoghi. I palestinesi a Gaza continuano a fare i conti con una grave insicurezza alimentare e con la carestia. Tuttavia, l’MCC, come altre organizzazioni, fatica a consegnare gli aiuti umanitari perché il governo israeliano ostacola l’ingresso dei soccorsi a Gaza.