Dopo l’animismo (prima causa del sottosviluppo nell’Africa nera), la seconda causa del sottosviluppo africano, è l’analfabetismo e la scarsa educazione del popolo a produrre ricchezza. Nell’Africa a sud del Sahara gli analfabeti sono in media sul 35-40% della popolazione e con gli “analfabeti di ritorno” si supera il 50%. Nelle campagne, le scuole valgono poco, spesso hanno 60-80 alunni per classe, senza libri, quaderni, strumenti didattici. Nelle città si trovano anche buone scuole e alcune università eccellenti, ma nei villaggi l’istruzione e la sanità fanno pietà. I paesi africani sono in genere molto estesi e poco popolati. Le grandi distanze, la mancanza di strade e la forte corruzione della classe politico-amministraiva, spiegano perché i governi trascurano le regioni rurali, che invece dovrebbero produrre la base dello sviluppo, il cibo. Già nel 1962 un famoso agronomo francese, René Dumont (1904-2001), consulente di diversi governi africani indipendenti, con “L’Afrique noire est mal partie”, denunziava il fatto che i giovani governi africani trascuravano i villaggi rurali e scriveva che l’Africa, “se continua a trascurare i contadini e privilegiare i cittadini, tra dieci o vent’anni sarà alla fame”.
“La cultura africana ostacola lo sviluppo”
Nel 2007 sono tornato in Guinea Bissau e ho visitato una giovane volontaria dell’Alp (Associazione Laici Pime), Nicoletta Maffazioli, che a Bambadinca ha fondato e gestisce con altri volontari un “Centro di formazione” dei giovani africani che vengono dalle campagne: “Uomini e donne dai 16 ai 25 anni scelti dalle singole missioni, per farne dei leaders del mondo rurale ancora molto arretrato. Sono giovani di buona volontà, cordiali e vivaci, molto motivati, ma ai primi passi nel mondo moderno. Nicoletta mi dice: “I nostri corsi sono gratuiti e accogliamo al massimo 30 persone, facciamo corsi di agricoltura, sistema di irrigazione, allevamento animali, malattie delle piante degli orti (che è il grosso problema di qui) e degli animali, conservazione dei prodotti, trasformazione dei frutti ad esempio in marmellate e sughi, coltivazione delle api per il miele, come nutrire i bambini con prodotti locali non pesanti, la contabilità (contano fino a una certa misura, poi dicono…”tanti”); e poi questi giovani prendono contatto con le case in muratura, come si aprono i rubinetti dell’acqua e le maniglie delle porte, l’uso dei fornelli elettrici e a gas. Mentre il resto del mondo corre, qui ci sono ancora una marea di giovani vivaci e intelligenti in questa situazione, ma è la realtà dei villaggi lontani dalle città che sono davvero tanti, quasi abbandonati a se stessi”.
Ancora in Guinea Bissau un missionario del Pime, padre Luigi Scantamburlo, ha fondato nei villaggi delle isole Bijagos un’ottantina di piccole cooperative di pesca, portando strumenti moderni e chiamando da Chioggia (Venezia) alcuni tecnici per insegnare ad usarli. Con un mare pescosissimo, prima si moriva di fame, oggi si è elevato il livello di vita, vendono il pesce a Bissau. Ho chiesto a padre Luigi: “Qual’è la maggior difficoltà che hai incontrato?”. Risponde: “Convincere gli anziani e i capi villaggio ad accettare le nuove forme di pesca comunitaria, barche, reti, cooperative, ecc. Per la mentalità tradizionale africana il futuro non sta nel cambiare e migliorare i sistemi di produzione e di vita, ma mantenere il villaggio così come l’hanno lasciato gli antenati, affinché i loro spiriti, tornando a visitarlo, si ritrovino, altrimenti si vendicano contro i loro discendenti. Ho dovuto procedere con i piedi di piombo. Mi sono fatto loro amico, imparando la lingua locale, partecipando ai loro riti, portando medicine. Quando si sono convinti che ero loro amico, allora è partita l’educazione dei giovani, che mi seguono con gran voglia di imparare”.
Il famoso proverbio cinese che dice: “Ad un affamato non dare un pesce, ma insegnagli a pescare” è più che giusto. Ma chi va, per anni, ad insegnare a produrre ed a pescare nell’Africa profonda delle campagne abbandonate dai propri governi?
Le prime industrie del Camerun sono cinesi
“Educazione” vuol dire cambiare la mentalità, la cultura che ancora prevale nell’Africa rurale, contraria ad ogni cambiamento della tradizione; e insegnare a lavorare nel mondo moderno, a produrre. A Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’Africa rurale (escluse le fattorie moderne) solo 5-6 quintali all’ettaro. Le vacche lattifere italiane producono 25 litri di latte al giorno, in Africa non producono latte, eccetto uno o due litri al giorno quando hanno il vitello. In Tanzania, nel 1995, mi dicevano: “Se ogni anno non importassimo del Sud Africa il 30% che mais che consumiamo, il paese sarebbe alla fame”.
Secondo i No Global “il 20% degli uomini possiede l’80% delle ricchezze del mondo e l’80% degli uomini possiede il 20% delle ricchezze”. Non “possiedono”, ma “producono” le ricchezze! L’abisso tra ricchi e poveri del mondo è questo: la cultura, la capacità di produrre (non solo risorse minerarie e forestali!), di esportare, di entrare nel commercio del “mondo globalizzato”, che è “il treno per lo sviluppo”. Se non si sale sul treno,s rimane a terra. L’Africa nera (escluso il Sud Africa) partecipa a mala pena al 2% del commercio mondiale. Le capitali degli Stati africani hanno il “quartiere industriale”, con fabbriche moderne importate da paesi europei; mi dicono che circa la metà non producono, sono ferme e a volte saccheggiate, altre producono al 30-40-50% di quanto dovrebbero.
Il Camerun è uno dei migliori paesi dell’Africa, con stampa libera, partiti di opposizione ed elezioni passabilmente democratiche, un governo “paternalista” assicura l’aumento del Pil (circa 1.300 dollari all’anno pro capite): ebbene, questo paese importa ancora biciclette, lampadine, ventilatori, frigoriferi, moto, ecc. Padre Carlo Scapin, missionario del Pime da 40 anni in Camerun, mi dice che negli ultimi anni i cinesi portano dalla Cina i componenti per moto, biciclette e altri veicoli e li rimontano per i camerunesi. Sono le prime vere industrie, ma di proprietà cinese.
“Il problema dello sviluppo in Africa è educare l’uomo”
Nella mia seconda visita in Mozambico nel 1991 ho incontrato un cappuccino della Basilicata, padre Prosperino Gallipoli di Montescaglioso (Matera), che aveva fondato la “Uniào Geral das Cooperativas Agro-Pecuarias” (agricole e di allevamento animali) e ne rimaneva il maggior animatore. Un impero agro-industriale, di proprietà degli stessi agricoltori e allevatori, diretto da africani, che era il principale rifornitore di cibo alla capitale Maputo e altre città. Produceva riso, miglio, granoturco, polli, uova, conigli, anitre, maiali, latte, uova, frutta, verdura e altro. Ho visitato le strutture agro-industriali della “Ugac”, che comprende campi e allevamenti di animali, centri di formazione agricola, trasporti, rete di distribuzione e negozi di vendita, 35 asili per 2.500 bambini delle famiglie associate, dispensari medici, officine di riparazione attrezzi agricoli, parchi di macchine agricole, magazzini e celle frigorifere.
Mi raccontava le difficoltà degli inizi negli anni settanta, con al potere il Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), dipendente dall’Urss. Diceva: “L’africano lavora bene, deve solo essere istruito sulle tecniche di produzione e poi deve godere dei frutti del suo lavoro. Il Frelimo ha fallito con le sue “aldeias comunais” simili si kolkhoz sovietici. La gente era depressa, non lavorava. Ho preso in mano le comunità agricole attorno a Maputo e le ho riorganizzate in base a tre principi che sono martellati in testa a tutti quelli che si uniscono a noi: 1) Chi non lavora non mangia – 2) Chi lavora deve produrre di più – 3) Chi produce di più deve godere i frutti del suo lavoro. Ma questi principi, mi diceva, non sono accettati in un paese “socialista” e nel 1979 mi hanno espulso dopo 20 anni di Mozambico, perché riuscivo a far produrre di più con una gestione del lavoro diversa da quella massificante imposta dal partito unico. Pochi mesi dopo sono rientrato in Mozambico perché ho incontrato in Tanzania Joachim Chissano , allora Ministro degli Esteri. L’ho quasi aggredito dicendogli che erano stati ingiusti con me e che, se mi davano la possibilità, avrei dimostrato come si organizza il lavoro comunitario per far produrre di più”.
Chiedo a Prosperino come mai Chissano l’ha riammesso in Mozambico. Dice che nel 1979, quattro anni dopo l’indipendenza, “il socialismo era fallito e, in un paese che sotto i portoghesi, grandi agricoltori, esportava riso, con il socialismo era iniziata la tragedia della fame. Io ho detto subito: dalle mie cooperative il partito rimane fuori, la formazione dei contadini la faccio io. Con i miei collaboratori abbiamo insegnato l’orticultura, l’agricoltura, l’allevamento degli animali, le tecniche d’irrigazione, la falegnameria e tutto il resto. Poi ho educato alla libertà e alla dignità dell’uomo e della donna; poi corsi di contabilità, di programmazione. Soprattutto ho insegnato ai contadini ad essere responsabili, ad impegnarsi non solo nella produzione, ma anche nelle decisioni da prendere, distribuendo equamente il frutto del loro lavoro. Nelle cooperative di Stato, non solo non si dà lo stipendio in modo regolare, ma non si distribuisce nulla in più dello stipendio minimo. Io ho incominciato a distribuire il di più che avevamo prodotto suscitando entusiasmo, fedeltà, impegno.
“Il problema di fondo dello sviluppo in Africa è questo: gli africani sono persone di grande umanità, con grandi valori umani, ma non riescono ad esprimersi nel mondo moderno, non ne conoscono il linguaggio, i ritmi, la mentalità, la cultura. Questo in campo agricolo, ma anche in campo industriale, politico. Producono poco, se ricevono uno stipendio per un po’ di giorni non vengono più a lavorare perché hanno già da mangiare. Il problema di base per lo sviluppo in Africa è educare l’uomo”.
“Quando sono arrivato in Africa più di 30 anni fa – continua Prosperino – mi sono subito reso conto che il contadino è l’ultima categoria sociale, anche se è il fondamento della società africana, la classe più importante. Non solo il contadino, ma la donna contadina, l’unica che in Africa lavora per davvero. Mi son messo in testa fin dall’inizio di aiutare i contadini e le donne. E’ strano che noi preti , che in Italia siamo ritenuti antifemministi, qui, in Africa, siamo quelli che fanno di più per l’elevazione delle donne (con le nostre suore naturalmente). Il mio lavoro è stato quello dell’animatore rurale e l’ho sempre inteso come pre-evangelizzazione. Non si evangelizza uno schiavo, se non rendendolo libero, dandogli fiducia in se stesso. Il segreto del successo è stata l’educazione, sia tecnica che ai valori del Vangelo: dignità della persona umana, libertà, responsabilità, impegno, senso del bene comune”.
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook