Una nazione muore perché fa sempre meno figli e produce sempre più morti, e a gennaio si riprenderà a parlare di matrimoni gay e stepchild adoption.
Gian Carlo Blangiardo è uno dei demografi italiani più seri. Venerdì 11 dicembre Avvenire pubblica un editoriale a sua firma, la cui sostanza è la seguente: in base ai dati Istat dei primi sette mesi del 2015, vi è un incremento di 39 mila decessi rispetto all’analogo periodo del 2014, l’11 per cento in più. Se il dato si consolidasse sull’intero anno condurrebbe a un numero di morti per il 2015 superiore di 66 mila unità rispetto all’anno precedente: 664 mila in totale a fronte di 598 mila. Blangiardo sottolinea l’eccezionalità del dato: una impennata di decessi comparabile vi è stata in Italia solo in tempo di guerra. La differenza con gli ultimi due conflitti mondiali sta nel fatto che oggi la componente della popolazione maggiormente interessata appare essere quella degli anziani; altra sostanziale differenza è che adesso non ci sono bombardamenti né restrizioni alimentari né giovani che cadono al fronte.
Una indicazione del genere, proveniente da una fonte autorevole e stimata, dovrebbe far suonare l’allarme e attivare un immediato dibattito, far accelerare dalle anagrafi l’acquisizione dei dati relativi agli altri mesi dell’anno, far aprire una discussione parlamentare con una informativa del governo che chiarisca cosa accade e quali ipotesi di spiegazioni si possono formulare. Invece le istituzioni manifestano per le sorti demografiche dell’Italia un interesse pari a quello per il gioco del polo: l’incredibile rilevazione statistica cade nel vuoto, non si tenta neanche di contrastarla, ammesso e non concesso che ci siano dubbi sulla sua attendibilità. Atteggiamento ancora più incomprensibile se il tendenziale 2015 dei decessi si affianca a quello delle nascite, che dovrebbe attestarsi intorno alle 500 mila unità: lo spread fra i bimbi venuti al mondo nel Belpaese nel 2015 e le persone che questo mondo lo lasciano supererebbe le 160 mila unità, un divario mai conseguito.
Leggiamo le cronache della politica: dense di dettagli sulle primarie nelle città nelle quali si vota in primavera e di polemiche a margine delle truffe bancarie, ma prive anche solo di un cenno sulla brusca accelerazione nel dirupo demografico. La crisi vera della politica sta tutta qui: una nazione muore, perché fa sempre meno figli e produce sempre più morti, e a gennaio si riprenderà a parlare di matrimoni gay e stepchild adoption, cioè di forme di unione naturalmente sterili, mentre le famiglie vero nomine sono sempre più osteggiate culturalmente e fiscalmente.
La riduzione delle nascite dei decenni passati, per lo meno a partire dagli anni Settanta, ha causato un abbattimento della popolazione più giovane; in parallelo, gli anziani sono aumentati in assoluto e in percentuale. Con ciò sono cresciuti i costi del welfare, e in particolare della sanità. Come si fa a stare in budget sempre più oggetto di tagli puntando a garantire standard minimi accettabili? Selezionando i pazienti: l’età avanzata è un criterio di selezione, come la presenza di patologie gravi. Capita con frequenza crescente di sentire di anziani affetti da patologie tumorali cui, recatisi dall’oncologo, viene detto che la cura c’è e – grazie a Dio e ai progressi della ricerca – ha pure una potenziale efficacia, e però vista l’età siamo proprio sicuri di volerla affrontare? La ricaduta sociale del rifiuto dei figli e di azioni di governo pesantemente ostili alla famiglia è l’avanzare di una eutanasia non dichiarata ma praticata.
Quando i numeri meritoriamente fatti emergere da Blangiardo saranno consolidati, la reazione che finora è mancata potrà anche essere – in coerenza con la logica socialmente suicidiaria affermatasi dalla fine degli anni Sessanta – di formalizzare in legge quel che accade nei fatti: perché negare una aperta disciplina giuridica della morte procurata? Chi l’ha detto che il motto “dalla culla alla bara” appartenga al passato della socialdemocrazia europea? La sua riedizione in questa fine del 2015 vede la culla trasformata in un oggetto da museo, e la bara (o il reparto cremazione) divenire il vero simbolo di una cultura demenziale, coerentemente tradotta in scelte politiche.
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