L’Isis, l’esercito islamico dell’Iraq e del Levante è diventato un attore geopolitico, un vero e proprio governo non riconosciuto, un Califfato islamico dotato di un proprio budget stimato in due miliardi di dollari, che lo rende, di gran lunga, il più ricco gruppo terrorista al mondo. L’origine di questa ricchezza, impiegata sia per il controllo del territorio, sia per l’acquisto di armi e munizioni sul mercato nero, è e resta uno degli aspetti più inquietanti del dramma iracheno. L’Isis è nato apparentemente dal nulla, nella primavera del 2013, nella Siria settentrionale e orientale. Nel giro di pochi mesi è riuscito a consolidarsi. Nel solo giugno del 2014, dopo alcune incursioni preliminari in inverno e primavera, è riuscito a conquistare un territorio pari all’intera Siria, diffuso fra le regioni orientali siriane e l’Iraq nord-occidentale, compresa Mosul, la seconda città irachena.
Se nessuno vuole l’Isis, se persino Al Qaeda non lo vuol riconoscere come una propria filiazione, da dove spunta questo grande e ricco esercito? La risposta al dilemma è, quasi certamente, la più semplice in assoluto: autofinanziamento, economia di predazione e consistenti fondi privati. Partiamo da questi ultimi, che cronologicamente parlando sono arrivati per primi.
Un documentatissimo studio della giornalista statunitense Elizabeth Dickinson, pubblicato dalla Brookings Institution nel dicembre 2013, rivela come, dal 2011, si sia formata una fitta rete di finanziatori dei gruppi armati jihadisti siriani in Kuwait. Perché proprio in Kuwait? Perché l’emirato garantisce libertà di assemblea, libertà di espressione e un buon grado di segretezza bancaria. Tutte ottime cose, se non che, in quella regione del mondo, vengono sfruttate al meglio dai gruppi e dagli ideologi più estremisti. In Arabia Saudita, dopo l’11 settembre, i trasferimenti di fondi privati alle organizzazioni islamiche sono più strettamente monitorate. In Kuwait no. Gruppi jihadisti e attività teoricamente “caritative” legate ai Fratelli Musulmani, come la Rihs, benché soggette a sanzioni statunitensi, possono continuare a operare dall’emirato. La Dickinson ricostruisce la storia dei finanziamenti ai gruppi jihadisti fin dagli albori della rivoluzione siriana, indica i nomi dei suoi principali protagonisti, come il chierico e professore islamista Shafi al Ajmi, il siriano-kuwaitiano Khaled al Mohammed, la già nominata Rihs, l’Associazione Rivoluzionaria Deir ez Zor (dal nome dell’omonima città siriana divenuta l’epicentro delle attività dell’Isis); Mohamed Hayef al Mutairi a capo del Consiglio dei Sostenitori della Rivoluzione Siriana; Hajjaj al Ajmi, giovane chierico salafita (detto “il bambino”); Ghanem al Mutahiri, finanziatore diretto di Al Nusrah. Questi uomini e organizzazioni hanno formato ed equipaggiato intere brigate, da partire dall’autunno del 2011, quando le proteste e le insurrezioni siriane sono sfociate in una vera guerra civile. Hanno pubblicamente raccolto fondi, aprendo siti internet appositi, organizzando collette, lotterie, competizioni a chi armava più jihadisti. Siti espliciti, in cui si indicava il prezzo per le armi da comprare: 800 dollari raccolti permettevano l’acquisto un lanciagranate RPG, per esempio. Queste organizzazioni di sostegno non si limitavano ai soldi e alle armi: loro specifiche sezioni provvedevano alla propaganda, alla comunicazione sui social network, all’organizzazione (anche sul campo) delle strutture paramilitari e civili dei loro gruppi. Una raccolta fondi straordinaria durante il Ramadan del 2013 chiedeva di armare 12mila jihadisti: 2500 dollari per ogni combattente da addestrare ed equipaggiare. Spesso in lite fra loro, anche solo per motivi di prestigio e rivalità, questi finanziatori hanno provocato anche la frammentazione della resistenza siriana in una miriade di brigate, anche in lotta fra loro. Soprattutto, i chierici salafiti hanno impresso la loro ideologia ai gruppi che finanziavano e armavano. Basti solo un’inquietante dichiarazione pubblica di Shafi al Ajmi, l’11 giugno 2013, per capire di cosa stiamo parlando: alla notizia che le sue milizie avevano catturato gruppi di Hezbollah (sciiti e filo-Assad), chiese che gliene fossero preservati 10, per “macellarli con le mie mani”. E questo venne detto in piazza, di fronte all’ambasciata del Libano in Kuwait City.
La rete dei finanziatori privati dal Kuwait ha attraversato fasi alterne, con un picco nel 2012 e una decadenza nel 2013, motivata soprattutto dai lunghi tempi del conflitto, dalla stanchezza, dalla divisione settaria dei gruppi finanziati e (per gli animi più sensibili) anche dalla crescente violenza dimostrata da questi combattenti nei confronti dei civili. Altri fondi, comunque, sono giunti da reti analoghe (che operavano con metodi analoghi) dal Qatar e dall’Arabia Saudita, specie quando questi due Paesi si misero alla testa degli sponsor della rivoluzione siriana, nel 2012. I governi sono indirettamente responsabili di tutto questo transito di denaro. Basti pensare che, in Kuwait, altri gruppi di privati ed esuli siriani hanno finanziato gli sciiti e il governo di Bashar al Assad. Nel 2013, su pressione statunitense, il Kuwait ha imposto anche controlli più severi sulle sue banche, anche se i fondi sono arrivati ugualmente e in grandi quantità tramite corrieri privati, meno controllabili e gestiti da clan e tribù con agganci all’estero. Il danno, comunque, era già fatto. Nella primavera del 2013, più della metà dei membri di Al Nusrah hanno giurato fedeltà al nuovo Isis e al suo leader Al Baghdadi, portandosi con sé armi, equipaggiamento e fondi raccolti nei due anni precedenti. La galassia di organizzazioni salafite cresciute sotto l’egida di finanziatori siriani esuli, qatarini e sauditi è poi in gran parte confluita nel nuovo Califfato, la realtà più promettente, sia in termini di soldi che di potere. Non si parla di un progetto ideologico nato a tavolino: la stessa rivista del Califfato, Dabiq, dedica ampio spazio alle alleanze tribali che sono confluite nel nuovo movimento, al di qua e al di là del confine siro-iracheno. Ecco come, in pochi mesi, è nato il mostro del deserto che adesso compie il genocidio di cristiani e yezidi in Iraq.
Espandendosi, un esercito che inizialmente era costituito da meno di 10mila combattenti male armati, ha incluso anche pezzi di esercito iracheno, dominando intere comunità sunnite nemiche del governo sciita di Al Maliki. Adesso ci si stupisce come i guerriglieri dell’Isis siano dotati anche di armi sofisticate (alcune notizie non confermate parlano anche di carri armati americani Abrams nelle loro mani): si tratta semplicemente di tutto quel che è stato abbandonato dall’esercito iracheno in piena disintegrazione. L’autofinanziamento è imposto alle popolazioni locali, attraverso un sistema di riscossione di imposte tradizionali islamiche, riscatti e confische. A Mosul, ad esempio, tutte le case dei cristiani sono state sequestrate e sono ora parte del patrimonio del Califfato. I loro abitanti, costretti in fretta e furia alla fuga, devono pagare un riscatto per poter rientrare in possesso dei loro beni e tornare a vivere nelle loro case. Ma nella stragrande maggioranza dei casi, non si fidano affatto di rientrare a casa loro e vivere sotto la “protezione” di un Califfo che li vuole “convertiti o morti”. Anche attività criminali direttamente legati all’Isis provvedono a fornire dollari guadagnati con i rapimenti, il commercio di armi e di merce di contrabbando, in tutto il Medio Oriente. L’economia di predazione, poi, non è da sottovalutare. La sola conquista della banca centrale di Mosul è fruttata all’Isis 425 milioni di dollari, che costituiscono più di un quinto del suo intero patrimonio. Anche senza andare sui “colpi grossi”, le colonne di profughi yezidi e cristiani che fuggono verso il Kurdistan sono un’altra grande fonte di profitto: i fuggiaschi sono infatti sistematicamente fermati ai posti di blocco dell’Isis e depredati di tutto, dall’auto ai beni personali. Sono ormai molte le testimonianze di cristiani che arrivano in Kurdistan senza più nulla addosso e in tasca. Come tutti gli eserciti di predoni, anche l’Isis sfrutta la disperazione delle sue prede e ci si arricchisce.
In base a quel che sappiamo, questa è l’origine della ricchezza dell’Isis. Altre ricostruzioni che vanno molto di moda su Internet, al contrario, appaiono affrettate quanto interessate. Edward Snowden, per esempio, la ex “talpa” della National Security Agency, sostiene che l’Isis sia stato allevato in batteria dai servizi segreti di Usa, Gran Bretagna e Israele. Ma Snowden, che ha rivelato aspetti tecnici dello spionaggio della Nsa, non ha mai avuto accesso alle “segrete stanze” della Cia o del Pentagono. Tantomeno a quelle dei servizi segreti alleati. In compenso, lavorando e parlando dalla Russia, ha tutto l’interesse a diffondere disinformazione sugli Usa, in un momento di crisi fra le due potenze. Al Maliki punta il dito sui governi di Qatar e Arabia Saudita, suoi diretti rivali sunniti. Ma, al di là della sua inimicizia politica (e religiosa) nei confronti dei due Stati del Golfo, l’ormai ex premier iracheno dovrebbe spiegare come mai proprio l’Arabia Saudita sia ora il più acerrimo nemico dell’Isis e foraggi il Libano per contrastarne l’espansione.
Come in tutti i casi precedenti di guerra al terrorismo, una guerra misteriosa contro nemici sconosciuti, anche l’Isis provoca una vasta fioritura di teorie del complotto. Ma la risposta alla sua nascita e crescita, su chi abbia allevato questo mostro, è con tutta probabilità la più semplice: tanti hanno contribuito a gonfiare una guerriglia jihadista, anche se nessuno aveva mai previsto o voluto la nascita di un Califfato.
di Stefano Magni
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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