“Mettendoci da parte vostra ogni impegno aggiungete…alla pietà l’affetto fraterno”. (2 Pietro 1:5, 7).
Abbiamo già avuto occasione di notare come la pietà si trovi tra le grazie più definite e potenti del carattere cristiano e quelle più delicate che si riferiscono agli altri. Potenza, conoscenza, autocontrollo, pazienza, tutte presuppongono antagonismo e impegno, e possono essere coltivate in assoluta solitudine. Ora, attraverso la pietà giungiamo alle grazie che dovrebbero appartenerci come membri della società. Queste grazie sono soltanto due, e differiscono soprattutto nel loro significato. I cerchi sono concentrici, il diametro di uno è più grande di quello dell’altro; ma l’affetto fraterno, che riguarda il rapporto cristiano con gli altri credenti, e l’amore, che comprende i doveri verso tutta l’umanità, sono sostanzialmente identici. Perché la parola “affetto fraterno” può essere anche propriamente tradotta “amore fraterno” e “amore” è tradotto normalmente “carità”, in quanto come ben sappiamo, l’applicazione di entrambi i termini nel Nuovo Testamento è semplicemente “amore”. L’unico debito che il cristiano ha in modo diverso verso coloro che sono partecipi della stessa fede preziosa e verso coloro che non lo sono, è un debito d’amore. Troviamo, perciò, nell’affetto fraterno un’applicazione più limitata, e nella virtù che segue, cioè “l’amore”, una più ampia. Trattiamo ora la prima virtù.
Prima di tutto osserviamo come nello stesso nome di questa grazia v’è già la lezione che riguarda sia il suo fondamento che la sua natura. L’espressione “affetto fraterno” è stata coniata nel corso della storia del cristianesimo ed gli appartiene interamente. Per un momento immaginate di tornare indietro alle condizioni della società del mondo antico, quando apparve l’Evangelo e misurate i baratri “profondi quasi quanto l’esistenza”, che dividevano gli uomini l’uno dall’altro – le ostilità razziali, religiose, le diversità di condizione sociale ed anche la separazione del sesso che doveva essere il fondamento della più profonda unità dell’umanità. Quale comunione avevano i Giudei con i non-ebrei? Quale comunione esisteva tra schiavi e liberi? Quale comunione vera avevano uomini e donne? Ma su questo mondo così diviso in settori opposti, soffiò una strana potenza unificatrice. L’Evangelo ricompose tutte le divisioni e riempì tutte le brecce, e ricondusse schiavi e liberi, ebrei e non, uomini e donne, aduna grande unità, tanto profonda, tanto dolce, tanto reale, che tutti gli antagonismi svanirono e scomparvero. Il mondo antico si rese conto che un miracolo si era verificato ed era stato rivelato “il mistero, che era stato nascosto per tutti i secoli e per tutte le generazioni” (1), che un rapporto comune col divino Padre rendeva tutti gli uomini partecipi dell’unico Padre celeste. Così, da tutto questo scaturì la nuova parola “amore fraterno”, per esprime la nuova relazione che sostituì le tragiche separazioni e distinzioni di un mondo caotico.
Consideriamo brevemente quali istruzioni contiene questa parola in riferimento al fondamento dell’unità cristiana. Parliamo di “fratelli” cristiani senza ponderarne profondamente il significato. Purtroppo, la parola in nove casi su dieci è usata ironicamente e per condanna, piuttosto che come definizione di una realtà. Ma all’infuori di questo, che cosa indica? Indica una paternità comune; o per esprimere il concetto con altre parole, la ragione per cui uomini e donne cristiane sono legati per nutrire sentimenti ed emozioni benigni l’uno verso l’altro, perché sono partecipi di una vita comune, che è derivata da un’unica origine. Quando chiamiamo “fratelli” tutti i cristiani arriviamo in profondità, proprio al cuore del cristianesimo. Non è soltanto una espressione sentimentale che contiene l’idea di un amore reciproco, l’uno verso l’altro, e tutto finisce qui. È, invece, una dichiarazione della ragione profonda, del perché i cristiani debbono amarsi a vicenda e questa si collega a quella grande verità, la verità centrale dell’Evangelo, che in Gesù Cristo tutti coloro che Lo amano e pongono in Lui la propria fiducia ricevono direttamente da Dio la comunicazione di una nuova e spirituale vita soprannaturale, che li rende non soltanto figli di Dio per creazione, secondo la carne, ma figli di Dio mediante lo Spirito Santo. Proprio perché siamo così “nati di nuovo”, “rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio”…, la parola del Signore “che rimane in eterno” (2), siamo tutti, partecipi di questa vita derivata da un unico Padre. Nel senso più semplice e prosaico siamo dunque “fratelli uno dell’altro”. Su questa base, e su questa soltanto, può essere fondata la grande verità dell’unità della Chiesa di Dio, e la pratica manifestazione delle grazie che scaturiscono da tale rapporto. Su questa realtà di essere “nati di nuovo” il nostro Apostolo, nella sua prima epistola, fonda la sua esortazione: “Amatevi intensamente a vicenda di vero cuore” (3). La nuova vita garantisce a chi la possiede l’ingresso in questa nuova famiglia. La natura del legame prescrive e determina la natura del sentimento e dell’emozione che ne segue. L’atto più solitario ed isolato che un individuo può adempiere, anche se non ci fosse alcun altro essere nell’universo tranne Dio e lui, è quello che compie quando si rivolge a Dio penitente e fiducioso in Gesù Cristo. Quel “volo” solitario dello spirito verso l’unico Dio lo introduce in una meravigliosa, reale affinità, in un contatto con tutti coloro che partecipano alla stessa fede. Il pellegrino solitario viaggia verso la Croce e quando vi giunge scopre che è approdato “alla assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli” (4).
Questa unità è qualcosa di molto più profondo di una mera identità di opinioni. Se una chiesa è edificata soltanto sull’identità d’opinione, non è edificata sul fondamento. È qualcosa di molto più profondo che un’associazione con fini umani. Non dipende sulla scelta di un cristiano se si unisce o meno con altri cristiani. La Chiesa di Cristo non è una associazione volontaria alla quale si possa o non si possa appartenere secondo la propria volontà, ma i credenti sono nati di nuovo in essa, se sono veramente cristiani, proprio come sono nati nella famiglia umana alla quale appartengono. Non possiamo assolutamente liberarci della nostra parentela con coloro che posseggono la stessa vita, come non possiamo rinunciare alla fratellanza che ci lega a tutti coloro che hanno ricevuto vita fisica della nostra stessa origine. Perciò, non esageriamo l’individualismo del cristianesimo, né perdiamo di vista la grande verità che tutte le componenti sono legate insieme in un’unica sostanza e che, se siamo figli dell’unico Padre, siamo fratelli l’uno dell’altro.
Ne consegue, anche, che la natura dell’emozione è determinata dal fondamento del legame. “Nessuna distanza spezza il legame di sangue. I fratelli sono fratelli per sempre”, non importa quali errori facciano, non importa quali siano i rapporti l’uno con l’altro, non importa come possano esserci contraccambio di affetto e desiderio di simpatia. Questi particolari non hanno nulla a che vedere col dovere che è originato dalla parentela. Il legame è stretto e non può essere spezzato. L’affetto fraterno è semplicemente l’obbligo di ogni cristiano. Purtroppo, però, esiste una solenne realtà nell’antico proverbio il quale sarcasticamente afferma che “fratelli” in Chiesa significa molto meno che “fratelli” fuori. Ricordiamo: “Aggiungete alla pietà l’affetto fraterno”.
Dalla serie di sermoni “GEMME DI GRAZIA”
di Alessandro McLaren
Fonte: http://www.tuttolevangelo.com/
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