“Perché lo fai?”. Questa è la domanda che mi stanno ponendo tutti. Sia chi apprezza il mio impegno, sia chi proprio non lo capisce. Perchè lo faccio?
Il mio impegno “pubblico” è nato tantissimi anni fa mentre collaboravo con un’associazione che si occupava di gravidanze indesiderate grazie ad una casa famiglia che ospitava donne che altrimenti non avrebbero potuto portare avanti una gravidanza (i bambini che ho visto nascere oramai sono degli ometti meravigliosi). L’associazione proponeva inoltre percorsi di accompagnamento per le donne che, abbandonate a loro stesse (“è una tua scelta”) e avendo creduto alle grandi bugie sull’aborto (“non è nulla, puoi tornare indietro, non è tuo figlio, potrai un giorno rifarti, vedrai che in poche settimane passa tutto”), avevano abortito volontariamente. Io non ho mai incontrato in nessun altro volto le lacrime che ho visto solcare quei visi, mai. Neanche sui volti di mamme che avevano perduto i figli. Mai. Dolore che alcune sono state in grado di assumere, di rielaborare. Ho visto donne rialzarsi in piedi, avere la forza di guardare in faccia a quel che era accaduto, per darsi la possibilità di piangere e di rialzarsi in piedi. Rielaborazione del lutto. Poi, sì, sarà policamente scorretto, ma ho visto donne cercare anche Altro, e Risorgere. Sono passati anni, ma ho nel cuore e negli occhi quei volti, tutti. “Le mie regine”, le chiamavo. Per questo non tollero e non permetto che dalle mie parti si indichino le donne che hanno abortito come assassine.
Sono donne che hanno creduto ad una bugia, in un momento delicatissimo della propria vita. Paura, solitudine e ormoni. Un cocktail mortale. Accogliere le donne, le mamme, accogliere anche quel dolore, significa accogliere i figli di quelle mamme. Il contrario, sono convinta, ahimè, non funziona.
In tutto questo mi colpì una frase, semplice forse, ma che mi “svegliò”. Un giorno una donna, atea, mi disse: “se avessi saputo cosa avrei passato, se avessi saputo che avrei sentito questo vuoto, se avessi saputo come sarei stata, che avrei ricordato sempre il giorno in cui sarebbe nato, e il giorno in cui ho abortito, avrei valutato altro”. Lo ripeto, lo ripeterò fino alla nausea: l’aborto è una sconfitta, per tutta la società.
La donna abortisce in un momento particolarissimo della vita, e la narrazione “l’aborto è un diritto della donna da godere”, che quasi vorrebbe dire che la donna abortisce serenamente, è una narrazione figlia di ideologia. Sì, forse abbiamo letto tutti la notizia di quella influencer che aveva affermato di voler rimanere incinta per abortire, ma è evidente a tutti che una donna sana di mente mai potrebbe desiderare per lei un aborto. Una donna abortisce perché pensa di non poter fare altro. E non basta, perché il dolore dell’aborto è continuamente negato. Non solo quello fisico. E questa è una violenza sulla pelle delle mamme e… dei loro figli. Negare quel dolore. Convincere le donne che quel dolore debba restare nell’oblio. Come se quel dolore, che rompe la falsità della narrazione sull’aborto, non dovesse avere cittadinanza. Soffocato, per cinismo, da quel “è stata la tua scelta e solo tua poteva essere”.
E quella donna me lo chiarì: “Se avessi saputo!”. Questo “se avessi saputo” mi ha rimbombato nel cuore da subito, e mi rimbomba tutt’oggi.
Dov’ero io quando a quella donna venivano raccontate queste bugie? Dove ero io quando le donne che ho incontrato, sole e spaventate, si sono sentite obbligate all’aborto? Dov’ero quando gli hanno raccontato che l’aborto non le avrebbe causato conseguenze?
Questa la ragione del mio esserci, oggi. Del mio metterci la faccia, anche se non conviene.
Sono nata nell’83, non so come fosse la situazione prima, ma certamente oggi l’aborto viene presentato come la panacea di tutti i mali: il diritto delle donne. Anche solo chiamarlo diritto lo presenta come una cosa che non è. Mentre l’aborto è un dolore solitario, silenzioso. Relegato e cancellato da: “hai fatto quello che dovevi/potevi” / ”Solo tu potevi scegliere cosa fare” / ”solo tu avevi il diritto di decidere”.
Ecco, vorrei che io, noi, lo Stato, che tutti ci facessimo carico di questo “non poter fare altrimenti”, per accogliere quella mamma spaventata e, naturalmente, suo figlio.
E invece viene presentato spesso e volentieri solo l’aborto. L’intoccabile aborto, l’innominabile aborto.
E il fatto che questi manifesti siano stati accolti così come sono stati accolti, mi confermano che oggi, nel 2021, non si può parlare di aborto, se non con i “dogmi”.
Vorrei restituire ai miei figli un mondo in cui la 194 dorma in un cassetto. Non mi interessa cercare un mondo in cui l’aborto sia illegale, io voglio restituire al domani un mondo in cui l’aborto sia impensabile: un mondo in cui le donne vengano accolte seriamente. Loro, le loro difficoltà, e naturalmente, i loro figli. Un mondo in cui la libertà sia davvero a 360 gradi.
Ecco “chi me lo fa fare”: la certezza che l’aborto è la più grande fregatura per le donne. Noi meritiamo di più.
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