Una donna, una bara, un corteo. Sono gli ingredienti di base del racconto di Nain che mette in scena la normalità della tragedia in cui si recita il dolore più grande del mondo. Quel buco nero che inghiotte la vita di una madre, e di un padre, privati di ciò che è più importante della loro stessa vita. Quel freddo improvviso e spaventoso che ti stringe la gola e sai che d’ora in poi niente sarà più come prima. Gesù non sfiora il dolore, penetra dentro il suo abisso insieme con lei. Entra in città da forestiero e si rivela prossimo: chi è il prossimo? Gli avevano chiesto.
Inizia così un altro dei capolavori divini di Gesù.
“In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.”. Luca 7:11-17.
La donna di Nain aveva già pianto la morte del suo uomo. Adesso è inghiottita dal dolore più atroce, quello che non ha neppure un nome per essere detto: due vite, quella del figlio e la sua, precipitate dentro un’unica bara.
Quante storie così anche oggi. Perché questo accanirsi, questa dismisura del male su spalle fragili?
Nella Bibbia cerchi invano una risposta al perché del dolore. Il Vangelo però racconta la prima reazione di Gesù: egli prova dolore per il dolore dell’uomo. E lo esprime con tre verbi: compassione, fermarsi, toccare. Gesù vede il pianto e si commuove, si lascia ferire dalle ferite di quel cuore.
Il mondo avvolte può diventare un immenso pianto, un fiume di lacrime ma invisibili a chi ha perduto lo sguardo del cuore. Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona (donna, non piangere) e scoprire dietro un centimetro quadrato d’iride vita e morte, dolore e speranza.
Nessun segnale ci dice che quella donna fosse più religiosa di altri. Ciò che fa breccia nel cuore di Gesù è il suo dolore. Quella donna non prega Gesù, non lo chiama, non lo cerca, ma tutto in lei è una supplica senza parole, e Dio ascolta l’eloquenza delle lacrime, risponde al pianto silenzioso di chi neppure si rivolge a lui esteriormente e si fa vicino, vicino come una madre al suo bambino. Il cuore è solo quello, farà sempre la differenza. Gesù vede, si ferma e tocca. Ogni volta che Gesù si commuove, tocca: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain. Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare il contagioso, l’infettivo, il mendicante, la bara e oggi si è più bravi a puntare il dito, ad aprirsi alle dicerie, nell’evidenziare difetti, anziché provare a comprendere, ascoltare.
Non è un sentimento è una decisione. Si accosta, tocca, parla: “Ragazzo dico a te, alzati. Levati, alzati, sorgi“, il verbo usato per la risurrezione. E lo restituì alla madre, restituisce il ragazzo all’abbraccio, all’amore, agli affetti che soli ci rendono vivi, alle relazioni d’amore nelle quali soltanto troviamo la vita. E tutti glorificavano Dio dicendo: è sorto un profeta grande! Gesù è il profeta della compassione, di un Dio che cammina per tutte le “Nain del mondo”, si avvicina a chi piange, piange insieme con noi quando il dolore sembra sfondare il cuore e lo cura, come solo Lui, immensamente sa farlo..
E ci convoca a operare “miracoli”, come quello di sostare accanto a chi soffre, accanto alle infinite croci del mondo, lasciandosi ferire da ogni ferita, portando il conforto umanissimo e divino della compassione. Fermarsi, sì, per saper vedere, comprendere e trasmettere.
Vincenzo Lipari | Notiziecristiane.com
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